Arte

Una perfetta mostra sul Picasso blu e rosa

Proveniente dai musei parigini che hanno titolo in merito, il Musée Picasso, il d’Orsay e l’Orangérie, è giunta alla Fondation Beyeler di Basilea una mostra sul Picasso blu e rosa che è da considerarsi perfetta, ricca di tutti i possibili dipinti e incisioni e sculture che il geniale artista eseguì tra il 1901 e il 1905, prendendo congedo da lui quando già stava concependo le epocali “Demoiselles d’Avignon”. Mostre di tanta completezza invano le vorremmo vedere anche da noi, e forse dipende proprio dal fatto che le nostre sedi espositive non praticano una politica di collegamento con istituzioni straniere, oppure, ahimé, da queste ultime non sono considerate credibili. E allora, come avviene per esempio per una deplorevole e manchevole mostra dedicata a Ingres dal Palazzo Reale di Milano, prendono l’iniziativa gli editori di cataloghi che abborracciano in fretta e furia rassegne molto parziali. Ma immergiamoci pure in questa perfetta raccolta di tutte le prove fornite dal giovane Picasso in quello scorcio d’anni, qui seguiti passo passo, ma forse non a sufficienza nelle ragioni stilistiche di fondo. Si ha la situazione curiosa di un artista che, pur avendo capito come i destini della ricerca si giocassero a Parigi, non si guarda troppo intorno, giunto alla Ville Lumière, sembra rimuginare più che altro i ricordi di Barcellona, del noto maestro Nonell che ebbe allora, o più in genere del modernismo catalano. Ovvero, Picasso non si imbranca con i prossimi Fauves, e tanto meno con i Tedeschi del Ponte, anche se pure lui è affascinato da temi di degrado e di miserabilismo. Non saprei dire quanti bevitori e bevitrici di assenzio sforna in quegli anni. Ma qui incontriamo un suo tratto decisivo, che poi non lo abbandonerà più, egli ci appare refrattario ai contenuti, non si farà mai trascinare al loro seguito, e non avrà mai molta attenzione per gli ambienti, per gli sfondi, o diciamo pure per i paesaggi. E dunque le sue figure, anche se appartenenti al mondo del degrado, offrendoci accanto ai bevitori di assenzio i personaggi favolosi del circo, i saltimbanchi, o chiunque ami indossare abiti sgargianti, a pezze multicolori, verranno trattati in un clima di sospensione magica. Non farà mai al caso suo il brutalismo in cui frattanto si immergono coloro che puntano a un fauvismo o a un espressionismo dichiarati, palesi. Lui si porta dietro una perfetta conoscenza anatomica, da accademico consumato, che poi non lo lascerà più sul filo degli anni, e dunque le immagini del degrado o del diletto marginale e gratuito gli consentono di prodigarsi in deliziose avventure plastiche, esercitate sui corpi, portandoli a farsi smunti, emaciati, o al contrario rotondi, plastici, proprio come le palle che agitano. L’artista è calamitato soprattutto dalle estremità, e dunque i volti si allungano, si fanno cavallini, le mani diventano prensili, quasi come serpentelli pronti ad afferrare la preda. Si potrebbe anche dire che il Picasso di quegli anni non si lascia assorbire entro le file degli artisti parigini a tutti gli effetti, ma semmai andrebbe paragonato a un immigrato come lui, al nostro Modigliani, capace di eleganze e di stilizzazioni ancor più preziose ed estenuate. Ma beninteso dobbiamo far entrare in gioco le due tonalità cromatiche assunte in queste fasi, che sono perfette nel praticare un clima di sospensione magica, volutamente estranea ai due corni tra cui era possibile scegliere. Da un lato il figlio del secolo nuovo non può certo confermare i climi magici e sacrali del Simbolismo fin-de-siècle, da cui ha preso congedo nel momento stesso che se n’è andato da Barcellona. Ma da un altro lato non vuole neppure accedere ai toni grossolani, volutamente scorretti, sbracati della consorteria fauve-espressionista, ecco dunque queste opzioni in definitiva consacrate al “cattivo gusto”, quasi al kitsch, che corrispondono proprio alla volontà di non pronunciarsi, di condurre i propri perfetti volteggi in un clima a sé stante, disponibile ad ogni passo ulteriore. Come infatti succede verso il 1906-7, quando da buon acrobata Picasso capisce che quell’equilibrio non è più sostenibile, e allora lo fa precipitare verso esiti gonfi e plastici, indietreggiando fino alle forme arcaiche, che gli vengono, ancora una volta, da quanto ha ammirato in patria. Ma poi capisce che anche quella soluzione non è decisiva, e allora, non è certo che guardi quanto, attorno a lui, andavano facendo i colleghi fauve, ormai da considerarsi arretrati. Lo colpiscono piuttosto le maschere negre o dell’Oceania che scopre a Parigi, ma nei negozi dei rigattieri, e da lì prende la forza per imprimere alle sue figure una sconvolgente sferzata d’energia. Però i fantasmi accademici non vengono mai da lui congedati, anche se per il momento li ripone in un armadio, da cui poi tornerà a tirarli fuori, ma non come scheletri, bensì come corpi ben in carne, salvo poi a renderli di nuovo “macri”, filamentosi, e così via, in una partita sempre aperta agli esiti più vari.
Picasso, The Blue and Rose Periods, a cura di R. Bouvier. Basilea, Fondation Beyeler, fino a maggio.

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