Letteratura

Finalmente un Fenoglio totale

L’editore Einaudi ha avuto l’eccellente idea di celebrare l’anniversario della Liberazione evitando i riti noiosi dei discorsi retorici, che tanto contribuiscono ad alienare i giovani da quel pur fondamentale momento storico, bensì riproponendo in edizione integrale “Il libro di Johnny”, ovvero il testo centrale di Beppe Fenoglio, di colui che è stato, a livello letterario, il miglior testimone di quegli anni drammatici. A condurre l’operazione, a sua volta, è stato chiamato Gabriele Pedullà, nato nel 1972, il che lo ha posto nella condizione di esprimere nel modo migliore la situazione cosiddetta dei Trenta/Quaranta, da lui onorata su tutti fronti, come autore di racconti, di cui annuncia una nuova serie per il prossimo anno; di un monumentale “Atlante della letteratura italiana”, in tre volumi, con cui ha osato sfidare, proprio in casa Einaudi, la supposta supremazia dello spocchioso Asor Rosa. Infine, sul campo della militanza, Pedullà si è già distinto per la cura prestata proprio al caso Fenoglio, come già avvenuto nel 2012 con la pubblicazione di “Tutti i romanzi”, sempre presso Einaudi, e ora con questa operazione magistrale in cui cuce due ante del monumentale affresco di vita e di guerra elaborato dal narratore di Alba, “Primavera di bellezza” e “Il partigiano Johnny”, superando steccati fissati da precedenti curatele per ragioni di circostanza. Ma ritornerò sui pregi di questa operazione, come risultano da una lunga introduzione di una ottantina di pagine.
Urge invece che io conduca un esame di coscienza. Infatti al momento, per me glorioso e indimenticabile, del Gruppo 63 avevamo deciso di comune accordo di collocare una barriera protettiva all’altezza degli ultimi anni Cinquanta, tagliando fuori anche i “Gettoni” di Vittorini e Calvino, ovvero in genere le imprese del neorealismo. Ci aveva disgustato la successiva pretesa dei vari Muscetta e Salinari, orfani inconsolabili dell’ortodossia lukacsiana, di lodare Pratolini e compagni per aver avuto il coraggio di superare il fenomenismo spicciolo appunto di una stagione di basso e mimetico neorealismo per seguire invece le “magnifiche sorti e progressive” del proletariato avviato alla conquista del potere. E nella nostra ripulsa venivano associati un Cassola laudatore di una Italietta impigrita nei riti di un provincialismo di bassa lega, o un Bassani, anche lui caduto in un proustismo “fatto in casa”. Infine, Pasolini, lui sì che coi “Ragazzi di vita” offriva un neorealismo di registrazione sul campo, ma mantenendo una distanza prudenziale, da autore ricco di buoni studi, rispetto alla massa dei diseredati cui si limitava a rivolgere una ipocrita commiserazione dall’alto.
Il primo a rompere quel muro protettivo da noi eretto fu proprio il nostro principale leader, Sanguineti, che ci stupì, in un’inchiesta condotta sul “Verri”, dove venivano condannati i vari Pratolina, Cassola e compagni, andando invece a recuperare Franco Lucentini e i suoi “Compagni sconosciuti”, indicandolo come un precedente dei suoi stessi polistilismo e parlata bassa che stava per calare nel “Capriccio italiano”. Io fui pronto a seguire le sue indicazioni, erigendo quel lontano “gettone” a pietra miliare dell’”abbassamento”, da me indicato come tratto peculiare del “nuovo romanzo”, dovunque venisse eseguito negli Anni Sessanta. In seguito ho aggiunto nella promozione anche il Domenico Rea dei magnifici racconti napoletani, ma, chissà perché, non mi sono spinto a un giusto recupero di Fenoglio.
Pertanto ora mi associo con entusiasmo all’operazione condotta dall’amico Gabriele, meritoria anche proprio nella misura che allarga il materiale in cui andare a scoprire le virtù di questo superbo narratore, del tutto degno di ricevere la tessera ad honorem di primo tra gli sperimentalisti di casa nostra. Il che consiste nell’evitare quanto poi avremmo dovuto obiettare a Pasolini, il narratore si identifica con la sua materia, seppure per delega affidata a Johnny, superando una barriera di distanza. De re nostra agitur, il che anche giustifica il plurinlinguismo, a cominciare dagli inserti in inglese, il narrante non abdica alla sua condizione di intellettuale, partecipa con tutta la sua personalità e cultura e intelligenza ai fatti e misfatti della vita e della morte, così ritrovando quasi una corrente di coscienza degna del grande precedente di Joyce, non senza però la differenza su cui in seguito io avrei tanto insistito, tra un primo e secondo Novecento, quello fatto di titanici esponenti pronti a sollevarsi all’altezza dei massimi sistemi, quest’ultimo invece portato appunto a scendere in basso, a recuperare una testimonianza totale di vita. Il che però implica che si abbiano polmoni robusti e una fame avida di trangugiare i frammenti di esistenza, senza stare a fare troppa selezione tra loro, e respingendo il filtro alienante dei pregiudizi ideologici. Proprio per documentare questa ampiezza di visione riesce opoortuna l’opera di allargamento condotta da Pedullà, fino a una conseguenza brillante quanto inopinata. In fondo, il nostro Fenoglio stende un nuovo Ulysses, smisurato, senza confini, per cui occorre dargli un qualche contenitore dall’esterno. Si sa bene che Joyce lo ha trovato nell’Odissea. Pedullà crede di scorgere, e si può essere d’accordo con lui, che Fenoglio si è ispirato all’Eneide, e dunque la “Primavera di bellezza” sarebbe l’erranza del suo eroe, seguita poi, nei capitoli dedicati alla guerra partigiana, dai libri del poema consacrati alla conquista del territorio in cui rimettere i propri Penati.
Beppe Fenoglio, Il libro di Johnny, Einaudi, pp. 784, euro 28.

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