Letteratura

Lucarelli: un “Intrigo” non del tutto convincente

Da qualche tempo ho preso in esame l’enorme continente della para-letteratura affidato al profluvio di romanzi gialli e polizieschi, in genere estesi in ripetute uscite, e pronti a rimbalzare dalla carta stampata all’esito filmico o televisivo. Fenomeno di cui non c’è affatto da stupirsi, e anzi avvenuto quasi in ogni stagione della lunga storia della narrativa, accompagnato anche dall’esito non confortante per chi difende la causa del valore letterario: la pubblica audience preferisce questo tipo di prodotti, rispetto agli esiti di una scrittura di ricerca. Ma, data la presenza ineluttabile di questo macrocontinente, cerchiamo di salvare il salvabile, entriamoci dentro ed effettuiamo qualche distinguo. Così, per rifarmi proprio a quanto affidato a queste pagine clandestine, ho bocciato l’effettismo smaccato di Saviano e della sua “Paranza dei bambini”, in totale disaccordo con l’immagine che si è costruito di esemplare sostenitore di ogni causa nobile, mentre al contrario appare pronto a fare un uso smodato della camorra e dei suoi riti. Domenica scorsa ho pure redarguito l’effettismo ugualmente esasperato, ma almeno immune da fini “nobili”, di Sandrone Dazieri, mentre in precedenza ho lodato il modo di procedere cauto e circospetto di Gianrico Carofiglio. E in un’altra sede, più ufficiale, dei miei “pollici” affidati alla rivista “L’mmaginazione”, ho pure svolto un cauto elogio di De Giovanni e della nuova puntata dei suoi “Bastardi di Pizzofalcone”. Ora è il caso di occuparmi dell’ultimo Carlo Lucarelli appena uscito, “Intrigo italiano”, un autore verso cui le mie reazioni sono saltellanti, distribuire tra consenso e bocciatura. Sempre sull’”Immaginazione” ho bocciato senza appello un suo tentativo di romanzo storico, ispirato alla disfatta di Adua, “L’ottava vibrazione”, mentre ho approvato “Albergo Italia”, anche in questo caso rivolto a perlustrare l’Italia delle colonie, ma in modi misurati e attendibili, subito sciupati in un successivo “Il tempo delle iene”. Lucarelli produce troppo, appunto in modi contrastanti, con un’altalena tra il buono e l’insufficiente. Che dire di questo ennesimo prodotto? Certo, ci sono validi passi avanti, verso quella procedura oculata e abbastanza verosimile che fanno di lui forse il principale affiancatore di Camilleri. Ritorna in scena il commissario De Luca, ma preceduto da vicende arruffate, tanto da venire chiamato “Ingegnere”, con una collocazione sospesa: è membro riconosciuto di qualche forza dell’ordine, o outsider che lavora in proprio? Il che del resto rispetterebbe uno stereotipo di tutto questo clima, i buoni investigatori sono tra il dentro e il fuori, hanno sempre dei conti aperti con le legittime forze dell’ordine, pronte a sconfessarli, ma in genere colpevoli di condotte disoneste e sleali, contro cui prende risalto proprio l’integerrima statura di questi intrepidi combattenti. Chi insomma è il braccio sbagliato della legge, o invece il più giusto ed efficace? Ma anche in questo caso Lucarelli è preso dalla tentazione “rétro”, la vicenda è ambientata in una Bologna tra il dicembre e il gennaio 1953-54, chissà perché, sono date che, per la città felsinea, non corrispondono a stagioni di particolare interesse. Se proprio il Nostro si voleva tuffare nel passato, perché non rivolgersi, poniamo, al ’77, colmo di tanti fatti clamorosi? L’ambiguo commissario-ingegnere viene dotato di uno scudiero, tale Giannino, che anche qui secondo lo stereotipo è un godibile Sancio Panza, furbo e ingenuo nello stesso tempo. I due sono chiamati a indagare su una morte dubbia, di Stefania Cresca, trovata cadavere nello studio del marito, che a dire il vero se ne serviva come trappolone per amori clandestini, e che era deceduto in un oscuro incidente d’auto, in cui è inevitabile fiutare subito l’intervento di una macchinazione delittuosa. Poi, Lucarelli compie una prodezza, qualcosa di abbastanza insolito, cioè a loro volta i due investigatori restano vittime di un incidente d’auto, il più simpatico dei due, che è anche il malaccorto guidatore, non ne esce vivo, mentre De Luca rinasce dalle ceneri. Ma in realtà questo curioso inizio, che sarebbe anche una fine, è appena un pretesto, perché si ricomincia daccapo, i due sono seguiti mentre indagano prima del malaugurato scontro che solo provvisoriamente, o definitivamente per uno dei due, li ha tolti di scena. A dire il vero, questa seconda sciagura automobilistica vuole essere la conferma che c’è del torbido in tali scontri. Esiste un potere occulto che li prepara, come si verrà a sapere quando alla stazione di Bologna passerà di fretta un super-poliziotto. Egli confessa che la morte del Crusca è stata procurata perché si temeva che trasmigrasse all’estero con la sua intelligenza di super-scienziato, e poi lo stesso meccanismo repressivo è stato pure messo in atto contro De Luca e compagno perché si spingevano troppo avanti nell’indagine. Ma con ciò Lucarelli cade nell’anacronismo, appioppa a una Bologna timida e provinciale del dopoguerra le trame dei servizi deviati che ai addicono all’epica degli 007, dei James Bond. Lucarelli dovrebbe anche spiegarci come è possibile procurare i due disastri automobilistici di cui ci parla, infatti bisogna indurre il guidatore condannato alla morte a effettuare un sorpasso azzardato, e ci deve essere una perfetta intesa con un’auto alle spalle che sia pronta a stringere, a impedire che l’avventuroso tentatore del sorpasso riesca a rientrare in tempo. Insomma, manovra insostenibile, inverosimile. Poi, Lucarelli si porta dietro dell’altro materiale dai suoi racconti dedicati all’Africa coloniale. Infatti una super-protagonista della vicenda è Claudia, nata proprio in colonia, e dunque “faccetta nera”, ma che poi, venuta da noi, può vantare un curriculum anch’esso inverosimile per accumulo di prestazioni: staffetta partigiana, mondina, cantante di balera, e in definitiva generosa prodiga di amore senza riserve verso De Luca. Il quale, infine, risolve l’intrigo nel modo previsto dal genere, trovando cioè il colpevole nella persona meno sospetta. Forse era meglio se invece che al freddo, indisponente De Luca l’autore avesse affidato la vicenda a un’altra sua creatura, più simpatica e gradevole, all’ispettore Coliandro. Solo un buon pizzico di humour poteva salvare una storia così arruffata, e tanto simile a un patchwork, fatta cioè con l’assemblaggio di pezzi tra loro non ben assortiti.
Carlo Lucarelli, Intrigo italiano. Einaudi stile libero, pp. 206, euro 17.

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