Milano tutta, e al suo seguito l‘intero nostro Paese rendono omaggio a Giorgio Marconi per il mezzo secolo della sua attività come gallerista, dapprima, e a lungo, sotto l’etichetta di Studio, poi nobilitatosi proclamandosi Fondazione. Una assidua e costante presenza che si può ricondurre all’insegna di una “lunga fedeltà” testimoniata sotto tutti i possibili aspetti: fedeltà alle origini del lavoro di corniciaio ereditato dal padre, ed esercitato sempre nello stesso luogo, quando all’inizio, accanto ai locali dove abili artigiani quasi di famiglia procedevano a confezionare quadri, spuntavano pure i primi accrochages di artisti di punta. E fu proprio uno di questi, purtroppo morto troppo presto, Bepi Romagnoni, a mettermi in contatto col Giorgio nazionale. Poi, di anno in anno, ho visto la sede allargarsi, conquistare nuovi spazi, ma sempre rispettando le scelte di partenza, senza buttarle a mare, come pure hanno fatto tanti altri galleristi accedendo agli stimoli del momento. Infatti ora, a celebrare il mezzo secolo di presenza, eccoli tutti lì, i convitati dei primi raduni. Li si trova al primo e al secondo piano dell’intero edificio, ospiti d’onore, irriducibili compagni di via. A volerla definire, la navigazione di Giorgio è sempre consistita in un buon equilibro tra l’attenzione al territorio e invece una larga e prensile occhiata alla scena nazionale e internazionale. Al centro di tutto, la patuglia dei Baj, Adami, Tadini, Del Pezzo, ovvero dei cultori della poetica dell’oggetto, unita a un senso acre e vivace della narrazione, che nel capoluogo lombardo ha rappresentato la variante alla Pop nostrana, ufficialmente insediata a Roma e a Torino, e con la tentazione di peccare di purismo e di escludere la versione milanese giudicandola ibrida e spuria. Ma non è che Marconi volesse issare la bandiera di uno spirito meneghino, infatti non ha mai mancato di abbeverarsi con scelte opportune anche nell’Urbe, e così il numero uno della Scuola di Piazza del Popolo, Mario Schifano, è stato di casa, tra quelle mura, così come pure il più poetico cultore del minimalismo nostrano, Giuseppe Uncini. E poi, attenta e continua attenzione ad Arnaldo Pomodoro, a Emilio Isgrò, a qualche nume internazionale come Louise Nevelson e Richard Hamilton, e apertura alle nuove tendenze, da Franco Vaccari a Bruno Di Bello ad Aldo Spoldi. Queste solide presenze sempre riconfermate sono tutte coinvolte alla festa celebrativa, con in più un sottile accorgimento didattico ad uso del pubblico, che ne potrà ammirare le opere alle pareti, correlandole con una serie di cataloghi e altri documenti esposti in bacheche a centro stanza.
Ma ci voleva, a onorare la tavolata, un ospite d’eccezione reperito nel numero uno dell’intera milanesità, e oltre, lungo tutto il secolo trascorso, Lucio Fontana. In merito devo dire di aver nutrito qualche paura, che in questa rassegna, a cura della Fondazione dell’artista, si fosse aderito a un atteggiamento già da me stigmatizzato su questo sito, cioè a concepire una certa vergogna e censura nei confronti del Fontana barocco, delle magnifiche ceramiche della fine dei Trenta, Queste infatti non ci sono, però non si è neppure indulto in eccesso a quella sorta di gesto minimale, altamente simbolico, ma non degno di concentrare in sé l’intera portata del Lucio internazionale, il taglio. Un gesto ambiguo, perché certo addita che si deve ormai andare oltre la superficie della tela, ma lo spettacolo che ci accoglie oltre quella soglia, oltre la stilettata breve e secca, è ben scarso. Qui invece la memoria dell’ìmpulso barocco, così congeniale alla nostra epoca postmoderna, si manifesta per tanti versi. Dovessi scegliere dal catalogo un’ immagine-campione, punterei sulla foto dove il Gran Lombardo si fa riprendere, in perfetta tenuta quasi da manager, di fronte a una sagoma da lui tracciata con confortanti ritmi fluidi, ondulati, ameboidi. In altre parole, Fontana ci ha sempre invitato ad affacciarci a uno spettacolo, per questo tanti suoi lavori si intitolano “teatrino”, e i casi da preferire sono quelli in cui la sottile epidermide che si frappone tra noi e il cosmo intero, più che essere squarciata da un colpo di rasoio, viene aggredita con le unghie, o traforata con una rosa di forellini, quasi di un prigioniero che tenta di aprirsi un varco con cieca e testarda ostinazione. Insomma, la grandezza di Fontana va preservata da uno spirito riduttivo, da una pretesa che solo nel “less” ci sia l’ancora di salvezza. Anche lui mirava al “più”, alternando sapientemente gli accessi frenetici e in preda a una incontenibile ebbrezza ad altri che invece si sapevano fare freddi ed essenziali.
Fondazione Marconi, mostra del cinquantenario, fino al 31 ottobre.