Arte

Fulvia Mendini: la pittura non è più un delitto

Da qualche tempo sono impegnato a insistere sulla attuale “oscillazione del gusto” che vede un ritorno in scena della Vecchia Signora Pittura, mi dicono che anche a Basilea, la regina delle Fiere d’arte, se ne vedeva parecchia, e del resto lavoro pure sott’acqua pro domo mea, ovvero per la mia cauta ripresa dell’atto del dipingere. Che beninteso si sta svolgendo secondo modalità tra loro molto diverse. Oggi vorrei parlare di come procede Fulvia Mendini, anche se una sua personale alla Galleria milanese Antonio Colombo, una delle sedi più votate a questo rilancio, è ormai chiusa, ma in queste mie riflessioni private non sono tenuto a rispettare scadenze fisse, diversamente di quando, dalle colonne dell’”Unità°, mi rivolgo al pubblico. Con Fulvia si era pensato di organizzare una mostra riprendendo e capovolgendo un detto celebre quanto funesto, pronunciato ai primi del Novecento dall’architetto Adolf Loos, “l’ornamento è un delitto”. Noi avremmo voluto proclamare chiaro e tondo che al contrario l’ornamento ora è divenuto una necessità fisiologica, da far entrare nel paniere dei consumi quotidiani. Anzi, allarghiamo pure la formula, fino a proclamare che è la pittura tutta a non dover più essere considerata come un delitto. Speravamo di poter realizzare una manifestazione del genere a Rovereto, alla Casa Museo Depero, negli interstizi delle opere che vi si conservano del grande deuteragonista del Futurismo, nella sua seconda incarnazione avvenuta sotto la guida di Balla. Ma pare che al momento quella sede sia a secco di fondi, e dunque aspettiamo altre occasioni. Naturalmente nell’arte di Fulvia c’è aria di famiglia, si avverte l’influenza del padre Alessandro, che però è forte e geniale in quanto mescola i livelli, alterna allettanti dimostrazioni di pura cromia con recuperi di kitsch, di voluto cattivo gusto, mentre la figlia professa una specie di angelismo, che, tra gli esempi qui già segnalati, ci potrebbe ricordare gli exploits recenti di un “secondo futurista” come Gianantonio Abate. Ovvero, da lei abbiamo icone di voluto infantilismo, ricostruite pezzo a pezzo, nel nome della più schietta “flatness”, con esibizione di simmetrie programmatiche, quasi fossimo in presenza di testi di Rorsach, ma per leggervi non certo cupi drammi psicanalitici, bensì favole pure, incontaminate, edificanti. Esiste beninteso la possibilità immanente che rende propizio questo ritorno della pittura, di venir propinata in tante salse. Infatti questi dipinti di cristallina innocenza potrebbero anche essere considerati abbozzi per tanti impieghi “applicati”, dove quindi il ritorno al pennello assume anche il valore di un rilancio della decorazione. A mio avviso Fulvia dovrebbe coltivare le vie della videoarte dando movimento a quelle sue sacre icone, pur mantenendole composte, ieratiche. Oppure ne verrebbero ottime possibilità di “arte pubblica”, per grandi murali su pareti di periferia, per portarvi felicità, gioia di vivere, incanto, distensione. Nulla di male, poi, se da questi puri schemi si traessero anche suggerimenti per applicazioni pubblicitarie, nel che la figlia ritroverebbe sulla sua strada le soluzioni polivalenti del padre.

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