Letteratura

“Julieta”, una caduta di Almodovar nel buonismo

Quando non mi trovo sottomano un testo letterario su cui dir bene o male, ricorro, come ormai dovrebbe essere noto, all’equipollenza tra narrativa e cinema, vado cioè a giudicare un film che mi sia capitato di vedere in una normale attività di frequentatore di sale cinematografiche. Poco fa, avvalendomi di questa licenza, ho detto alquanto male dell’ultimo Virzì, “La pazza gioia”, reo di diverse cadute in un buonismo che lo porta a evitare soluzioni drastiche ma coraggiose. Ancora peggiore è l’esito in tal senso che viene dall’ultimo prodotto del pur grande Almodovar, dalla “Julieta” presentata a Cannes, del resto mi pare che già si sia levato un coro abbastanza unanime nel deprecare che il grande regista spagnolo una volta tanto non sia stato all’altezza del suo proverbiale spirito diabolico, con soluzioni rivolte a compiere “quattro passi nel delitto”, o nell’incubo. Se consideriamo “Julieta”, invece, tutto si spiana, troppo, cedendo a soluzioni facili, e oltretutto inverosimili, ma non per sfidare il senso comune, bensì per adattarvisi e confermarlo, il che, da un par suo, è la cosa più grave. Se vogliamo rintracciare anche in questa pellicola qualcosa degno di lui e del suo passato, dobbiamo fissarci su episodi marginali, come la renna che corre furiosamente accanto al treno in cui si trova la protagonista, appunto l’eponima Julieta. Quella corsa verso una fine che si intuisce tragica e disperata, fa rima col colloquio che la troppo tranquilla e pacata protagonista tiene con un occasionale compagno di viaggio. Il treno poi subirà una scossa per una frenata improvvisa, dovuta proprio al fatto che quell’intruso vi si è gettato sotto commettendo suicidio senza alcuna apparente motivazione. Ma questo appunto è un Almodovar che gioca ai dadi, il che non si può dire per i passaggi successivi, posti invece nel solco della ovvietà. Fin troppo felice, almeno in apparenza, l’amore che porta Julieta a fare coppia con un onesto partner dedito alla pesca, da cui viene fuori la figlia Antìa. Il bravo giovane, in realtà, si sente insidiato da uno strisciante tradimento che la campagna sta tramando contro di lui, fino a cercare, pure lui, una morte molto simile a un suicidio uscendo in barca con un mare in tempesta. Frattanto la figlia è stata spedita in collegio, ma a questo punto una normale verosimiglianza avrebbe preteso che, alla morte del da lei amato genitore, venisse subito avvisata e richiamata per il funerale della vittima. Invece la madre le nasconde quell’esito funesto, forse perché se ne sente colpevole. A questo punto appare del tutto verosimile che una figlia, così privata del sacrosanto diritto di rendere l’estremo omaggio al genitore, rompa con la madre. Ma in che modo? Anche su questo aspetto Almodovar appare molto incerto. Intanto, Antìa ha approfittato della libertà concessale per stringere un rapporto omosessuale con una compagna del cuore, come del resto è proprio delle comunità femminili, il che però non corrisponde a una scelta di segno contrario, di ascetismo, che quasi la porterebbe a farsi monaca, a entrare in convento, o ad affrontare una soluzione del genere in chiave di attualità, dandosi cioè ad opere umanitarie. La povera Julieta resta nell’angoscia, priva di notizie sulla figlia, a tormentarsi, a chiedersi quali siano le sue colpe, sappiamo bene infatti che queste ci sono, e rilevanti. Poi, attraverso l’incontro fortuito con l’ex-amante della figlia, viene a sapere quanto neppure noi ci saremmo aspettati, in realtà la giovane ribelle si è convertita al più retrivo spirito borghese combinando un matrimonio da cui le sono venuti ben tre figli. Julieta gioisce, nell’apprendere la fausta notizia, non sa però come ricucire con la sua contestatrice, ma il buonismo del regista le getta un’ancora di salvataggio. infatti Antìa perde in un incidente d’auto uno dei suoi tre figli, il che la riavvicina alla madre, le due si perdonano i torti reciproci, e da quel momento vivranno felici e contente, come vuole il finale delle favole.

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