Oggi non posso astenermi dallo stendere un commosso omaggio a Zaha Hadid, l’archistar con due record a suo merito, di essere stata l’unica donna in grado di iscriversi in quell’eletto club, altrimenti riservato ai soli maschi, e di averlo fatto con un estremismo cui non sono giunti i colleghi. Lei è stata la più risoluta e coerente nel dichiarare l’atto di morte della vecchi geometria euclidea fondata sull’angolo retto, che ha dominato nei secoli, o addirittura nei millenni, l’intera prassi edificatoria, almeno presso la cultura occidentale. Nel “Corriere della sera” di ieri, 2 aprile, compariva una pagina in cui i molti suoi collaboratori l’hanno ringraziata dei suoi apporti, riportandone una frase che non potrebbe essere più significativa: “il mondo non è un rettangolo”. Io nel mio piccolo vedo in ciò una straordinaria conferma di uno dei cardini di tutta la mia attività critica, il fatto che viviamo ormai da tempo in una civiltà retta dalla tecnologia di stampo elettromagnetico-elettronico, con la sua connessa imposizione di tutto un patrimonio di forme curvilinee, ellittiche, paraboliche eccetera, al di là di quanto, nell’ortodossia meccanocentrica dei secoli precedenti, poteva essere ammesso solo attraverso applicazioni della circonferenza, allungandola nella volta a botte, o facendola ruotare su se stessa nella cupola, che sono le classiche eccezioni a conferma di una regola pienamente dominante. Questa mia opzione istintiva, che si è espressa nell’adesione convinta alla dottrina di McLuhan, mi ha portato, anche in ambito artistico, a sostenere la causa dell’Art Nouveau, soprattutto nelle sue soluzioni architettoniche, con la punta massima rappresentata da Antoni Gaudì, dalle Case Battlò, Milà e Pedrera ai missili scagliati contro il cielo nella Sagrada Familia. Poi quell’ardore è stato spento dall’arrivo del Movimento moderno, pronto a imporre il dominio appunto dell’angolo retto, e della sua manifestazione plastica attraverso diedri lucidi, taglienti, con negazione di ogni sense-appeal e proibizione dei piaceri del colore e dell’ornamento. Oltre alla mia continuamente manifestata allergia alle soluzioni moderniste, posso aggiungere a mio merito di aver spalleggiato il guanto di sfida che, pur dalle sponde improprie di un esercizio fondamentalmente pittorico, ha lanciato contro di esse Jean Dubuffet, quando è passato a dare forma plastica, dalla scultura all’architettura, ai suoi deliri grafici, agli intrichi di ghirigori del ciclo dell’”Hourloupe”, pronti a infittirsi o a distendersi, ma sempre tenendosi ben lontani dal “raddrizzarsi”.
Se il postmoderno assume un significato, lo si deve proprio intendendolo come protesta radicale contro ogni sopravvivenza della dittatura dei 90 gradi e di tutta la loro discendenza, il che corrisponde anche all’irresistibile avvento della progettazione affidata al computer, e non più al regolo, alla squadra, al tiralinee. Di questa rivoluzione, che poi a ben vedere altro non è che un inevitabile adeguarsi delle soluzioni visive-artistiche agli schemi imposti dalla tecnologia dominante, la nostra Hadid è stata la più lucida e vigorosa esponente, anche rispetto ai suoi colleghi in eccellenza architettonica. Vado a passarli in rapida rassegna: Renzo Piano, maestro di opportunismo, pronto cioè a soluzioni di volta in volta rispondenti ai compiti che gli sono stati dati, ma sena la preoccupazione di conservare una coerenza stilistica; Daniel Libeskind, capace più che altro di seminare il disordine tra i diedri di provenienza postcubista, di montarli in modi liberi ed eterodossi, però senza saltar fuori da un residuo postcubismo. Frank Gehry, fin troppo libero nel suo senza dubbio ardito bricolage, ma compiaciuto nel concedersi un ampio margine di arbitrio. Forse il solo Calatrava può resistere a un confronto con la collega per coerenza e purezza stilistica, ma perché prende come sgabello per i suoi voli arditi un certo biomorfismo, ricavato da scheletri animali, che gli fornisce una consistente traccia su cui edificare. E dunque, solo la nostra Hadid si slancia sciolta e decisa a inanellare le sue curve, i suoi “lazos” scagliati nello spazio, ad attorcigliarsi su se stessi, e a sfidare quanti ancora si affannano a reclamare “pareti lisce”. Ne sappiamo qualcosa, visto che qui in Italia abbiamo assistito alla lunga gestazione del romano MAXXI, contro cui è stata scagliata proprio l’accusa di non avere pareti per ospitare “quadri”, ma senza tener conto che ora è proprio la misura del “quadro” a essere messa in discussione, a vantaggio di installazioni e altri interventi “site specific”, che in qualche modo le soluzioni curvilinee impostate dalla Hadid provocano, incoraggiano, tutelano, mentre del resto non mancano spazi distesi pronti anche ad accogliere opere di formato più tradizionale. Se si fa riferimento al MAXXI, è doveroso associare al nome del grande e intrepido architetto quello di Pio Baldi, che dal suo ruolo ministeriale ha scelto quel progetto e poi, con paziente e inflessibile impegno, ne ha curato la lunga e tormentata esecuzione, ma venendo poi rimosso, come un Mosé cui viene impedito di accedere alla Terra promessa verso cui ha guidato la sua squadra.
Tra i progetti non del tutto terminati lasciati in eredità dalla Hadid c’è pure la cosiddetta “Storta” di Milano, un grattacielo che si guarda bene dall’innalzarsi rispettando l’eterna ed erroneamente ritenuta imprescindibile regola del filo a piombi, bensì si torce, come se un gigante lo afferrasse e lo “strizzasse”, proprio per renderlo coerente e rispondente al nostro Zeitgeist. Ammetto che in proposito torna a echeggiare un quesito, già risuonato al tempo delle costruzioni di Gaudì piene di estro innovativo, come si vive in quegli spazi sottratti alla confortante e tradizionale sicurezza del rettangolo e dei suoi statici derivati? Provare per credere, forse dovremmo di nuovo raccogliere le testimonianze, come nel caso di Gaudì. di chi andrà ad abitare in quei siti, ma forse sarà l’intera umanità a mettersi in viaggio, ad abbandonare i comodi rifugi euclidei per avventurarsi in queste rotte scandite da famiglie geometriche di nuovo conio, con il relativo inevitabile indotto di ordine psicologico.