Letteratura

Viviani, incendiario o pompiere?

Queste mie confidenze di carattere letterario in genere sono state dedicate a opere di narrativa, secondo la curiosa abitudine insita nel mio DNA di congiungere un interesse appunto per prodotti di questa natura con altri relativi invece alle arti visive, in nome un matrimonio che in genere “non s’ha da fare”, dato che sembrerebbe più spontaneo associare un interesse per il visivo, cioè per opere di carattere “leggero” e afferrabili con un rapido sguardo, al genere della poesia. Ma qualche intervento, in certi momenti cruciali di svolta, l’ho pure fatto anche in questo campo. Ricordo per esempio di aver stigmatizzato l’antologia della “reazione in agguato” stesa a suo tempo da Pier Vincenzo Mengaldo, nel tentativo di annullare l’esperienza fondamentale dei “Novissimi”. E poi ho tuonato contro la “Parola innamorata” e casi similari, che negli anni Settanta tentarono di seppellire definitivamente la secchezza oggettuale della neoavanguardia propiziando il ritorno a comode e confortanti emozioni. Ma erano interventi in negativo, a difesa di una cittadella minacciata, Ho invece effettuato una ardita sortita in avanti proprio agli inizi degli anni Ottanta, quando, dato per scontato che l’esperienza dei Novissimi fosse fondamentale e insuperabile, mi sono chiesto come però fosse possibile andare oltre, seguendo l’inevitabile ritmo della ricerca che non può mai arrestarsi. In quel momento proposi che si cercasse un nuovo terreno d’esercizio compiendo quanto definii, in un saggetto eponimo, “Viaggio al termine della parola”, partendo dalla constatazione che a livello semantico e sintattico, cioè in un sostanziale rispetto dei criteri posti dalla grammatica, tutto era già stato fatto, e dunque restava da spezzare la sacra unità delle singole parole per ottenere dei neologismi, riaccorpando i mozziconi così ottenuti. Ritenni insomma che ormai fosse da affrontare il continente dell’”intraverbale”, rendendo attuale una bomba rimasta fin lì quasi inesplosa, ovvero le ricerche oltranziste affidate dall’ultimo Joyce al “Finnegans Wake”. Nel predicare la possibilità di quella pista mi sostenevano due esempi, l’uno fornito da Tommaso Ottonieri, con le sue “Memorie di un piccolo ipertrofico”, attorno a cui andava coagulandosi una squadra di nuovi poeti , avvistati dallo stesso Alfredo Giuliani come eredi del Gruppo 63, tanto da proporre per loro l’etichetta di Gruppo 93. In quegli anni sono stato buon compagno di via sia di Ottonieri, sia del terzetto napoletano Bajno-Cepollaro-Voce, seguendoli anche quando lanciarono la loro rivista-manifesto, il “Baldus”. Da lì nacque, in me e in Balestrini, la spinta a inaugurare una serie bis di incontri al modo di quelli ormai affidati alla storia del Gruppo 63, e nacque così RicercaRE, proprio dal 1993 in avanti, per una decina di anni. Ma, visto che la poesia si era rimessa in corsa da sé, per forza propria, mi affrettai a rientrare nella mia parte più consueta di sostenitore della narrativa, con i buoni frutti che non cesso di glorificare anche in questo blog.
L’altro punto di forza che mi aveva ispirato l’estremo “Viaggio” mi era venuto da Cesare Viviani, autore di una straordinaria raccolta il cui titolo stesso era già una sfida, la proclamazione di un metodo audace. Infatti suonava come un accozzaglia di neologismi, “L’ ostrabismo cara”, un assurdo incastro, quasi un “Pape satàn aleppe” riecheggiante. Poi a dire il vero da quell’acme di massimo ardimento Viviani è rientrato, quasi rispettando un detto che lo stesso Eco in seguito ha fatto proprio, secondo cui in gioventù possiamo anche essere incendiari, ma poi viene l’età della ragione e diventiamo pompieri. Io, di fronte a questa massima dettata dal buon senso, ho sempre protestato che essa non mi riguarda, in quanto tento di rimanere l’incendiario di sempre, a mio rischio e pericolo, infatti ormai proprio per questa ragione sono azzerato, anzi, costretto a vivere “sottozero”, come un Nautilus immerso per sfuggire alla cattura. Invece, in fondo, sembra che Viviani a quell’aureo detto abbia aderito, e gliene è venuto un largo consenso, una piena accettazione, tanto che pubblica ormai da tempo con la principale delle nostre case editrici, con l’Einaudi. E la sua marcia complessiva arretra a una situazione di sicurezza che può ricordare, per esempio, quanto lo stesso Anceschi sosteneva prima di essere trascinato da Giuliani, ma del tutto consenziente, sulla strada perigliosa dei Novissimi. Alludo a “Linea lombarda”, o comunque a una linea riposta su un fare sentenzioso, alla maniera di Erba, Risi, Sereni, Giudici, attenti a inserire nel vocabolario buoni margini di prosaicità opaca, tenendosi ben lontani da effetti preziosi e bellettristi, ma nulla più, in fatto di ardimento, Questo è anche l’ordito di base che ci presenta l’ultimo volumetto di Viviani, “Osare dire”, naturalmente uscito da Einaudi, in un classico bianco e nero. Però per fortuna, pur nel procedere in apparente sintonia con le buone regole di lessico e sintassi, sopravvivono forzature, incontri non del tutto lubrificati, ancora capaci di emettere qualche scintilla, qualche stridio cacofonico, o quanto meno posto sotto il segno di un godibile imprevisto, come per esempio, a p. 49, il fatto che Ortisei venga fatto incontrare con Eliseo. L’impegno di fondo di misurarsi sul vero si dimostra compito arduo, problematico, tanto che il nostro poeta, con il fare gnomico e sentenzioso che attribuisce “urbi et orbi”, ci dichiara “affannati a smontare / e a rimontare il vero”, p. 5. E può perfino risuonare un interrogativo falso-allarmista, “verranno mica a ricercare il vero da noi…?”, p 6. Non manca poi in genere un senso d’allarme, pronto a frenare o moderare la comparsa di qualche parola un po’ troppo altisonante, si danno cioè degli abbastanza felici ossimori, come “il rubinetto del quotidiano”, meglio ancora un “cervello di carne”, con la convinzione che coraggio e retorica debbano andare insieme. Se si profila il rischio di concedere troppo al privato, ecco il prudente freno: “Più che dell’identità personale / conta lo sferragliare del tram”, collegabile con le anime che vengono dette “abbrustolite”. E c’è anche una continua e tenace proclamazione della superiorità che su ogni altro valore spetta a quello informe e indeterminato della vita, definita “grande padrone”. E di nuovo, con volutamente ipocrita meraviglia: “E’ passata la vita / e non ce ne siamo accorti”. Insomma, leggendo questi versi si intravede che alle loro spalle stanno regimi di passate tempeste e turbolenze. Ora il panorama si è rasserenato, ma sopravvivono nuvoloni non del tutto disciolti. E dunque non si possono ripetere i versi manzoniani, volti a suggerire “al pio colono augurio / di più sereno dì”, il che peraltro sarebbe un esito disastroso per chiunque mantenga ancora un pizzico di fede nella causa della sperimentazione.
Cesare Viviani, Osare dire, Einaudi, pp. 113, euro 11.

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