Letteratura

Suburra, un film ben riuscito

Ancora una volta mi valgo dell’affinità tra il cinema e la narrativa, cui mi richiamo sulla scorta di un padrino di assoluta autorevolezza quale Aristotele, che nella sua Poetica ha avuto il coraggio di trattare in modo unitario due generi in apparenza distanti quali l’epica e il teatro, ma uniti dall’avere in comune la trama. Forte di questa possibile connessione, sono intervenuto lodando la triade di film che abbiamo portato a Cannes, soprattutto insistendo sull’eccellenza di taluni attori, del tutto degni di riportare il palmarès. Poi ho pure lodato l’ultimo film di Bellocchio, “Sangue del mio sangue”, anche in questo caso insistendo sull’eccellenza del protagonista Herlitzka. Ora mi sento di dire bene di “Suburra” di Stefano Sollima, buon lavoro seppure sulla scia della lezione di Tarantino, da questo regista già ampiamente sfruttata nei serial televisivi da lui realizzati, “Romanzo criminale” e “Gomorra”. Forse lo si può considerare come un erede dello “spaghetti western”, seppure rivolto ad altra materia, ma con la stessa prontezza di riflessi, e senza dubbio col rischio di cadere in facili manierismi. Ma ancora una volta viene prima di tutto la bravura degli attori, nell’illustrarla trovo anche la possibilità di percorrere la trama di questo fosco dramma. Sappiamo già quanto sia bravo Pierfrancesco Favino, qui magnifico nella parte, oggi così di attualità, del parlamentare corrotto, pronto ad ogni trasformismo, in questo caso a battersi per fare di Ostia una Las Vegas nostrana, agendo su colleghi corruttibili come lui per ottenere leggine ad hoc, in vista di uno scambio di favori. Di grande efficacia sono le scene girate davvero nelle pompose aule del Parlamento o nel locali adiacente. Da figura rotta ad ogni vizio Favino, nel ruolo di Filippo Malgradi, alterna la corruzione sul piano politico a quella in ambito privato concedendosi notti di vizio estremo, convocando in una sontuosa stanza d’albergo ben due prostitute d’alto bordo, con cui mescola i piaceri di un sesso estremo a quelli della droga. Solo che una delle due avvenenti ragazze squillo muore sul colpo. Ma, quasi imperturbabile, il nostro onorevole lascia che sia la compagna occasionale a sbarazzarsi del cadavere, facendo ricorso a un giovane malavitoso, fratello di una sorta di padrino massiccio e ingombrante. Qui c’è un piccolo mistero, dato che quest’ultima figura sembra la copia conforme del boss del famigerato clan dei Casamonica, ma come ha fatto Sollima a impadronirsi in così poco tempo di un personaggio, e soprattutto di uno sfondo di malaffare quale ci è stato rivelato, con generale stupore, dal famoso funerale? Il regista è straordinario nell’efficacia con cui ci fa entrare in quell’ambiente di una malavita grossolana, vera corte dei miracoli in preda al massimo disordine, a sporcizia, al tumulto di madri e figli gesticolanti all’impazzata. A contrasto con questo padrino grossolano e impastato di fango il regista pone un eccellente Claudio Amendola, detto Samurai, che invece procede con i guanti di velluto, tremendo nella sua crudeltà, ma pur sempre attento a salvare le buone maniere, quali si convengono a chi tratta con i più elevati rappresentanti della società. Se si vuole, il film segue lo schema della catena consequenziale delle tappe, ognuna delle quali innesca la successiva. Naturalmente non si tratta certo di una “chaine du bonheur”, ma al contrario dell’orrore e delle morti a ripetizione. Quel piccolo malvivente che libera l’onorevole dall’ingombro del cadavere della prostituta morta di overdose, come è prevedibile, tenta di ricattarlo, ma sbaglia la mossa, dato che Favino-Malgradi ha le spalle protette, e fa subito intervenire il padrino Amendola-Samurai. Il quale a sua volta ricorre a un esecutore spietato, e nello stesso tempo socio d’affari, in quanto, abitante a Ostia, sarebbe tra i migliori profittatori dell’innalzamento della spiaggia casalinga fino a divenire una capitale dei divertimenti. C’è dunque una serie di uccisioni a catena, il delinquente di Ostia uccide il ragazzino che minaccia l’onorevole, il quale però è il fratello del malavitoso concepito nello stile dei Casamonica, e dunque quest’ultimo dichiara tremenda vendetta contro l’Ostiense. Le cose si complicano, ma inutile qui voler dipanare l’arruffata matassa che procede con sparatorie, eccidi, colpi di scena sempre sopra le righe, ricalcati da scene newyorkesi che non si addicono allo sfondo di Roma capitale, in ciò sta l’aspetto caricato all’estremo e cupamente barocco cui senza dubbio Sollima si abbandona, per seguire il modello alla Tarentino. Vale la pena di menzionare i tocchi residui di umanità di cui danno prova questi feroci attori di un teatro dei pupi in versione sanguinosa. L’onorevole Malgradi, rincasando da una notte di crapula, accarezza con tenerezza il figlioletto che dorme pacifico nel letto. Il boss brutale è pur sempre mosso da uno schietto amore per il fratello maldestro, così da volerlo vendicare ad ogni costo. Infine il padrino feroce ma in panni morbidi, Amendola-Samurai, prima di cadere a sua volta sotto i colpi di una ritorsione spietata ha un momento di tenerezza nei confronti della vecchia madre che gli fa mangiare una forchettata di torta, trepidando per lui e intuendone la sorte minacciata. Il nero insomma è intervallato da brevi oasi di luce.

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