Arte

Gli ingegnosi identikit di Beppe Devalle

E’ quasi inevitabile che i grandi musei soggiacciano al rito dei “soliti noi”, offrendoci cioè mostre di artisti che vanno per la maggiore e che risultano consacrati ad ogni raduno internazionale. E’ quindi miracoloso che il MART renda omaggio a Beppe Devalle (1940-2013), artista torinese finissimo ma caduto nel cono d’ombra, soprattutto perché di difficile collocazione, non inseribile in una delle caselle di un prontuario ufficiale. Non so a chi sia dovuto questo miracolo, non credo al subentrante, alla direzione del MART, Gianfranco Maraniello, gli sarebbe mancato il tempo di mettere in atto un progetto così coraggioso, dovuto quindi alla Collu, che lo ha preceduto in quell’incarico prestigioso? Ma lei ha fatto ben poco, da quella sede, riesce quindi difficile dire se una scelta ardita del genere rientri nel suo profilo. Ma certo buona parte del merito è dovuta a moglie e figlia dell’artista, appartenenti alla valida categoria dei parenti che non si affrettano a monetizzare il “caro estinto”, ma si battono con tenacia per tenerne alta la memoria. In fondo, fino a un certo punto della sua carriera, era facile catalogare Devalle, lo si poteva inserire nel filone di un astrattismo geometrico volto a esibirsi con schemi aguzzi, taglienti, policromi, montati a tarsia, ma già in quel momento intenti a concedersi un “valore aggiunto” di grazie decorative, non fermandosi a un mero discorso “de lineis”. O almeno, ai tralicci lineari Devalle intendeva aggiungere pure una parlata “de figuris”, tanto per completare la nota formula. A quel modo, dalla casella, divenuta scomoda e inattuale, dell’astrattismo geometrico Devalle poteva balzare in quella ben più incalzante della Pop Art, rendere cioè un omaggio al culto delle immagini “popolari”, di divi del cinema, della musica, dello sport, ma senza dimenticare il suo primo tempo, anzi, dandosi da fare, con grinta e originalità, per portare i due momenti in apparenza, o anche in realtà, assai lontani, incongruenti, a celebrare invece un loro difficile matrimonio. In fondo, come i campioni più accreditati proprio della Pop Art, il Nostro sapeva bene che non bastava certo servire in tavola le icone fin tropo note, presentandole soltanto secondo un registro del “tale e quale”, occorreva invece “lavorarci sopra” in qualche modo. Lo stesso Warhol, pur nel rivolgersi a Marilyn o al Presidente Mao, eccetera, si sforzava di dare nuova linfa a quelle immagini entrate fin troppo nella pubblica circolazione adottando qualche procedimento straniante, l’ingrandimento prima di tutto, ma più ancora una colorazione volutamente maldestra, come di quegli anonimi pittori che stendono una mano su cartoline turistiche per ridare loro un qualche palpito di vita. Devalle invece a questo proposito mette sapientemente a frutto la sua esperienza precedente, aggredisce le icone dell’attualità con un armamentario di schemi ricavati proprio dal manuale della geometria. In definitiva, è come se ricalcasse i metodi dei bravi disegnatori professionali cui la polizia demanda il compito di ricostruire l’identikit di qualche criminale ricercato, sulla base dei suggerimenti e dei ricordi, magari incerti e nebulosi, di testimoni de visu. Nel caso di Beppe, tutto è più chiaro, in quanto egli dispone di una testimonianza collettiva, tutti conosciamo il profilo della solita Marilyn, o, per andare in un ambito più raffinato, di qualche autore di grande fama nella pittura, Picasso, o nella letteratura, da Virginia Woolf a Goffredo Pavese. Ma lo sforzo è di arrivare a quei “totali” procedendo attraverso incastri ingegnosi. Oppure l’intero procedimento può essere visto alla rovescio, il “totale” ce lo abbiamo, basta sforbiciarlo via da qualche rivista di lusso, da qualche magazine che ce lo propina con tutto il lustro della carta patinata. Però bisogna poi dimostrare che quell’icona arcinota non è piombata dal cielo, già fatta, tale e quale, ma che al contrario è il frutto di una geometria sottilmente calcolata. Ovvero, l’artista muove a una specie di verifica delle forme note a tutti attraverso un ricettario di schemi, tornano insomma a galla i tracciati geometrici da cui era partito, che vanno ad applicarsi a quelle sagome e profili, li mettono alla prova, tentano di ritrovarli per forza di sviluppi formali. L’operazione, per consapevole decisione, riesce solo a metà, si arresta nel bel mezzo di questo esercizio di equilibrismo, ovvero le ben ragionate e preziose sagomature geometriche si adattano solo in parte alle immagini finali da raggiungere, non ce la fanno a ritrovarle puntualmente, non avviene cioè una ricostruzione puntuale delle foto, pubbliche o private che siano, su di esse si abbatte un piacevole effetto di straniamento, di incompiutezza, come di un acrobatismo che non riesce a compiere l’ardito esercizio, ad afferrare la barra di sicurezza. In altre parole, l’identikit, la ricostruzione riescono solo parzialmente, ma in quello iato voluto sta tutta la forza dell’operazione, è bello, provvidenziale che i due corni del problema non si ricuciano, che l’appuntamento si fermi a metà strada, e che le due componenti opposte, l’iconismo facile, da strapazzo, da consumismo pronto e banale, e invece la verifica a base di sottili apparati formali, restino sospesi a cercarsi, nel tentativo di ricomporre un’unità sempre inseguita ma sempre sfuggente.
Beppe Devalle, Rovereto, MART, fino al 14 febbraio. Cat. Electa.

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