Mercoledì scorso 20 aprile sono andato a Roma in devoto pellegrinaggio per ammirare il grande murale di Kentridge. Mi attendeva subito qualche sorpresa, credevo che la cosiddetta Kentridge-mania avese inciso a fondo, ma invece ho dovuto constatare quanto il nostro mondo di amanti dell’arte sia limitato. Già il tassista che dalla Stazione Termini mi doveva portare sul luogo dell’opera aveva le idee molto confuse, mai sentito parlare di quella cosa, tanto che ho dovuto guidarlo io, vincere addirittura la sua reticenza in quanto mi diceva che gli davo indicazioni sbagliate. Qualche pro-loco dell’Urbe avrebbe ben potuto diffondere appunto tra i tassisti un po’ di informazione a uso dei turisti, che d’altra parte, a quanto pare un Giubileo troppo presto deciso e mal collocato nel calendario sta attirando in smunte schiere. Una maggiore sorpresa mi attendeva quando sono arrivato alla metà, infatti non vi ho incontrato nessun visitatore che come me stesse compiendo una visita rituale e non fosse là per mera casualità. E’ vero che l’inaugurazione ufficiale era prevista per il giorno dopo, ricorrenza del Natale di Roma, ma in fondo il battage pubblicitario avrebbe pur dovuto richiamare qualcuno, magari anche colpito dall’incertezza su come ammirare la grande opera. Infatti se si sta sulla medesima sponda del Tevere e si scende al pelo dell’acqua, in mezzo a qualche ciclista o jogger, si può ammirare da vicino il fine lavoro dell’artista, ma le immagini, alte più di otto metri, sfuggono via, non si riesce ad abbracciarle con lo sguardo. Se ci si reca sull’altra sponda, esse si presentano in giusta sequenza, ma rese pallide dalle modalità con cui sono state redatte, e soprattutto risultano quasi nascoste dalle ampie fronde dei platani, cosicché le si intravede tra un intervallo e l’altro del fogliame. Resta anche misterioso, almeno per me, il sistema preciso cui il grande artista è ricorso, per ottenere quelle maxi-immagini. Quello che sembra sicuro, è che abbia operato “in togliere”, cioè sbiancando con l’aiuto di getti d’acqua gli spazi contornanti le sagome, lasciandole quindi affidate alla patina del tempo, condannate così a impallidire e a sparire nel corso degli anni. Ma, data per certa l’origine fervidamente manuale di quei disegni, come Kentridge li ha ingranditi, con l’aiuto di pantografi, di proiezioni? Resta comunque il punto di partenza, consistente, da parte dell’artista sudafricano, in una ripresa dell’espressionismo degli autentici “selvaggi” della storia, quali furono Grosz, Dix, Beckmann, poi ripreso dai Neuen Wilden sul tipo di Georg Baselitz. E certo il Nostro compete con loro in esuberanza, forza, ferocia, e anche lodevole insistenza su ogni buona causa del mondo, a riscatto di tutti gli oppressi e offesi nei secoli. Ma con in più gli accorgimenti tecnici cui i suoi concorrenti tedeschi non sono arrivati. Infatti egli ha reiterato, moltiplicato le immagini dotandole di pose consecutive per ottenerne l’animazione, il “cartoon”, ma secondo i metodi del buon tempo antico, senza ricorso alla variazione automatica ottenibile con il computer, come fanno oggi la maggior parte dei confezionatori di cartoni animati. Questa è ancora la sua massima specialità, per cui non ci si può esimere dall’andare ad ammirare il magnifico Trionfo della morte che si snoda lungo gli otto maxi-schermi posti al pianterreno del palazzotto in cui Lia Rumma, a Milano, sfida orgogliosamente tutti i musei pubblici del capoluogo lombardo. In quel caso le immagini sono nitide, pur sfilando con quel passo faticoso e a scatti metallici quale risulta proprio dalla fattura manuale dei cartoons. Per l’impresa romana si può dire che Kentridge abbia fatto un passo indietro, ritornando al primo tempo della sua officina, dandoci cioè come delle enormi “still”, delle immagini fisse, anche qui, però, sfruttando qualche sapiente diavoleria tecnologica per ottenere i formati monumentali. E anche mutando il tema, se i video milanesi sono consacrati a celebrare un funereo Trionfo della morte, qui siamo piuttosto alla rievocazione, come si addice all’Urbe, di un Trionfo consolare, con cavalli che si impennano, busti marziali, insegne all’aria, però i “Trionfi” sono opportunamente contrastati dai “Lamenti”, sgorganti dalle vittime di quegli eventi magnanimi, e dunque, in una pozza si sangue, resa con una macchia più ampia del non-colore bigio dominante, si stende per traverso il corpo di Remo, prima vittima della grandeur romana, accomunato a un’altra vittima in un contesto totalmente diverso, il cadavere di Pasolini. Ma il nostro artista ama offrirci questi cortocircuiti della storia e degli annali della ferocia umana, nei suoi fregi, immobili o animati che siano, e che intendono anche avere un sapore didattico, perfino edificante, nel senso migliore del termine. A conclusione, osserviamo inoltre che questo è il modo migliore per praticare il muralismo, ritrovando la grandezza delle più riuscite imprese del genere, dai muralisti messicani al nostro Sironi, con l’aggiunta di una ulteriore preoccupazione cui l’artista sudafricano ha utilmente adempiuto. Nonostante l’eccellenza di questo enorme “fumetto” o “graphic novel”, egli ha ben compreso che in un contesto gravido di memorie secolari come quello di Roma la sua presenza alla lunga sarebbe stata inopportuna, e dunque ne ha previsto la consunzione, lo spegnimento, come fosse stato tracciato con inchiostro simpatico. Perdita giusta, se si pensa al turbamento che questo inserto, pur condotto con ogni cautela e prudenza, ha comunque inferto entro il sacro recinto dei Sette Colli, ma deplorevole, se appunto si considera l’eleganza, la forza, la qualità che ne hanno accompagnato la realizzazione. Chissà se fosse possibile riportarlo in qualche spazio esterno, per esempio all’EUR, in questo caso lavorando non più in togliere, bensì in aggiungere, cioè annerendo le sagome, come si conviene a ogni disegno vero e proprio.