Letteratura

Avallone: da dove la vita è tutt’altro che perfetta

Su Silvia Avallone ho uno stato di servizio oscillante, che va dalla risoluta bocciatura di “Acciaio”, l’opera prima del 2010 in cui questa scrittrice si è presentata, a un cauto recupero riservato al successivo “Marina Bellezza”, 2013, mentre ritorno a opporle un “pollice verso” nei confronti dell’attuale “Da dove la vita è perfetta”, già lungo in eccesso perfino nel titolo, difficile da giustificare. In sostanza, alla sua prima apparizione le negavo il secondo “neo” con qui qualifico i narratori che fanno i conti da vicino con i termini della situazione attuale che stiamo vivendo, nel privato e nel pubblico, mentre la Avallone, seppure con l’esuberanza, di chi “va alla baionetta”, che sicuramente è dote da riconoscerle, ricadeva nei miti e stereotipi del neorealismo d’antan. Le sue pagine emanavano il sapore di certi testi tipici di quella stagione, come i “Ragazzi di vita” di Pasolini e “Il fabbricone” di Testori. Fanciulle oppresse dalla miserie dei rispettivi ménages, sottoposte all’arbitrio di genitori tutt’altro che virtuosi, uno dei quali anche pronto a mettere in atto insidie di carattere incestuoso. E anche la fabbrica, l’acciaieria, di una Piombino ormai sorpassata dalla crisi in atto nel settore, risultava sede di stereotipi, come l’amore, inverosimile, tra un “figlio del popolo” e una vogliosa capitana d’industria. Nulla insomma che rispondesse all’identikit di una società più avanzata e in regola coi nostri tempi.
Qualche punto a favore ho riconosciuto invece al romanzo venuto dopo, per almeno due ragioni, perché l’eroina di quella storia, Marina Bellezza, riesce a saltar fuori da un basso mondo di miserie affrontando una carriera “up to date” di cantante di successo, decisa a tutto pur di fare carriera, a costo di abbandonare un amore adolescenziale a favore di un giovanotto che per fortuna evade anche lui da profili troppo prevedibili, basti dire che, con qualche suo complice, compie un misfatto, come sarebbe investire con l’auto un cervo, però poi assistere impotenti, angosciati, all’agonia del nobile animale. Insomma, in quell’opera siamo posti di fronte a due creature che tentano di saltar fuori da facili stereotipi.
Il che purtroppo non avviene in questa terza prova, dove tutto è scontato e prevedibile, anche se magari un bolognese come me deve pur manifestare qualche apprezzamento per il fatto che la scrittrice, mia concittadina, si sforza di restituire con qualche fedeltà alcuni tratti della città. Ma a ben vedere le vicende, del tutto prevedibili, potrebbero essere ambientate in qualsivoglia realtà urbana dei nostri giorni, dove non possono mancare quartieri degradati dove le famiglie si dibattono alle soglie di quella povertà di ritorno di cui ci parlano i rendiconti Istat, e non se ne può dubitare. La protagonista Adelaide è un “fiore del fango”, in panni appena aggiornati, perfetta consumatrice di riti modaioli, nella misura che si addicono alle scarse risorse di famiglia, e non può mancare di cadere nelle grinfie del solito giovane scapestrato, tale Manuel, che commette la pessima performance di metterla incinta, chiamandosi poi fuori da ogni responsabilità. Se c’è una componente del romanzo che merita qualche punto a suo favore, questa sta ancora una volta nella grinta con cui la nostra autrice, assieme al suo personaggio, registra in cronaca fedele, esuberante, incalzante tutti i sintomi della gravidanza, trasmessi a noi quasi “in tempo reale”. Magari poteva anche accludere un dischetto con i relativi dati sonori e visivi. Ovvia la risoluzione, che statisticamente incombe in casi del genere, seppure non esente dal determinare patemi d’animo nella vittima. Data la sua indigenza, e la latitanza del maschio colpevole, non resta che dare la figlia, frattanto se ne è conosciuto il sesso, in adozione, secondo la crudele prassi che porta la madre naturale a sparire per sempre, perdendo ogni diritto a rintracciare un domani il frutto del suo seno. A riscontro di questo stereotipo, la Avallone ne infila subito uno di segno opposto, relativo a Dora, che avrebbe al suo fianco un fido marito su cui contare, ma è angosciata dall’impossibilità di procreare, pertanto non le resta che prendere la via dell’adozione, ma è un percorso lastricato di ostacoli, di cui senza dubbio il romanzo ci dà un attestato veritiero e indubitabile. Naturalmente, tra tanti disgraziati puniti dalla sorte, da bassi natali, da rovesci di fortuna, è pure opportuno inserire qualche prodotto ben riuscito, e la Nostra non manca a una regola del genere, ponendo a fianco dello scapestrato giovane Manuel, spacciatore di droga, un fratello minore, di nome Zeno, che invece è davvero un fiore sbocciato fuori dal letamaio circostante: bravo, diligente negli studi, avido di letture. In fondo, la nostra scrittrice lo grava della frequentazione di testi ad alto livello che lei stessa, nella sua formazione, si è guardata bene dal leggere, o comunque dal trarne qualche profitto. Il ragazzino si nutre di Svevo, del cui personaggio principale porta il nome, e perfino di Flaubert, di Dostoevskij. Ma niente da fare, la Nostra ha assorbito Zola, Verga, e poi, come detto, Pasolini e Testori, questa la progenie da cui esce il suo romanzo. Del resto, anche Zeno, di fronte alla malasorte, ben poco può fare, c’è perfino un inverosimile tentativo che lui stesso, nonostante la sua immaturità e poca prestanza fisica, possa sostituire il fratello corruttore di Adelaide, ma almeno su questo fronte la Avallone è colta da resipiscenza, si ferma un momento prima, riconoscendo che non c’è salvataggio per la sua eroina, costretta ad affrontare una vita che, diversamente da quanto proclama il titolo, è tutt’altro che perfetta.
Silvia Avallone, Da dove la vita è perfetta. Rizzoli, pp. 376, euro 19.

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