La mostra di Luciano De Vita (1929-1992), molto ben allestita nella magnifica Sala degli Incamminati presso la Pinacoteca nazionale di Bologna, l’ho visitata davvero, al momento dell’inaugurazione, fine gennaio scorso, ma per dedicarle un doveroso riconoscimento avevo atteso che ne uscisse il catalogo, a cura dell’amica e collega Silvia Evangelisti. Poiché questo tarda, come tutto nell’attuale momento di grande bufera, rompo gli indugi e dedico all’artista qualche riflessione, sicuro che la sua mostra, che sarebbe già terminata, resterà ibernata sulle pareti, come ogni altro evento espositivo, qui e altrove. Di De Vita sono stato allievo, nei miei anni di frequentazione dell’Accademia di belle arti, credo a partire dal ’55, quando secondo la mia tipica ambivalenza frequentavo pure, già da un anno, l’universitaria Facoltà di lettere. Per un anno avevo “mancato” l’insegnamento di Morandi, titolare dell’incisione, andato in pensione l’anno prima, sostituito, pro forma, da Manaresi, che purtroppo ne era come una copia sbiadita e ripetitiva. Ma in realtà, come voleva la consuetudine di quegli anni, il titolare, il maestro, si teneva tra le quinte, e al suo posto gestiva l’insegnamento l’aiuto o assistente che si dicesse, e questo era proprio De Vita. Che dunque si chinava, pieno di buona volontà, sul mio cimentarmi con la tecnica dell’incisione, in cui, sia ben chiaro, ero valido al primo livello, quando si trattava di graffire su una lastra di zinco lo strato di cera che la ricopriva, era un normale esercizio grafico in cui potevo esplicare le mie buone doti. Ma era poi un disastro quando si doveva passare alle pratiche successive: stabilire il tempo esatto della morsura cui sottoporre la lastra immersa nella bacinella contenente l’acido, quindi, con una pezza, compiere una doppia operazione, per un verso, riuscire a inchiostrare i solchi che l’acido aveva aperto sulla superficie, ma per un altro nettare gli spazi esterni. Io non ci riuscivo, mentre De Vita, da gigante buono e propizio, mi veniva in aiuto, compiendo per me quanto non ero capace di fare con le mie mani. Partendo da questa minima base autobiografica, posso allargare il discorso su di lui, riconoscendogli un grande merito. Pur venendo dalla trafila Morandi-Manaresi era del tutto estraneo a quella tradizione, di paesaggio o di natura morta, in ogni caso ben aliena dall’affrontare i temi di figura, e ancor più di far comparire esseri favolosi, ricavati da una mitologia, tra l’incubo personale e i depositi folcloici. In altre parole De Vita si ricollegava alla grande tradizione addirittura dei Rembrandtt, Callot, Goya, forse anche per rigurgiti di vicende personali. Si favoleggiava di una sua gioventù indisciplinata che lo aveva portato a militare sul versante sbagliato della politica, e forse si trascinava dietro segreti, colpe innominabili, anche se il suo aspetto, di ciclope buono e generoso, di Vulcano industrioso, non sembravano suggerire il peggio. Ma certo era in lui un istintivo bisogno di proteggersi da insidie, da colpe passate, il che lo portava a soluzioni formali assolutamente sconosciute ai suoi docenti. Come un bisogno di appallottolarsi su se stesso, di chiudersi a riccio, quasi di barricarsi, rubando questo segreto, per esempio, ai molluschi. Non per caso circola l’espressione “chiuso come un’ostrica”, ebbene questo era una degli esiti inevitabili dei suoi esercizi grafici. O in alternativa scattava un bisogno di imbozzolarsi, quasi come una mummia già pronta per essere calata in un sarcofago, forse, di nuovo, per chiudersi a insidie esterne, per salvaguardare un nocciolo di vitalità minacciata da pericoli esterni. Anche lui non poteva evitare di raccordarsi a un certo clima dominante nella Bologna dei Cinquanta, cioè all’Ultimo naturalismo arcangeliano, ma il suo omaggio a motivi vegetali lo portava a presentarli sotto forma di tronchi attorti, di rami scheletrici, pungenti, o di cespugli avvolgenti, come di rovi, o addirittura di filo spinato. Queste caratteristiche che facevano di lui un cultore della grafica nelle stagioni migliori, quando i suoi cultori sapevano suscitare fantasmi, mostri minacciosi, gli consentiva pure di avere degli sbocchi plastici, impensabili da parte di Morandi-Manaresi, ma sempre concepiti come un procedere a bloccare, a ricavare rozze sagome come con l’aiuto di corpi plastici, fino a ricavare degli esseri di gomma, raccolti, al solito, a proteggere i loro segreti, le loro fiammelle di vita. Con la possibilità di dare a questo suo mondo anche uno svolgimento scenografico, ancora una volta inconcepibile da parte dei maestri di casa nella tecnica incisoria. Invece quei suoi mostri, evocati da una instancabile lampada di Aladino, da nubi di fumo pronte a consolidarsi, gli permisero di affacciarsi anche sulle scene, per esempio, per una Turandot al Comunale di Bologna. Ritornando in breve alla sua biografia, un simile bisogno di barricarsi in una realtà domestica si comunicava anche nelle sue stesse modalità di vita. Proprio per l’eccellenza raggiunta nella calcografia, dopo la cattedra ottenuta a Bologna gli venne conferita anche quella all’Accademia allora, e credo anche oggi, più celebre in Italia, quella di Brera, ma vi faceva rapide incursioni avvalendosi del Settebello, un antenato dell’Alta velocità. Trascorse le due o tre ore di insegnamento obbligatorio nella sede di Milano, era già pronto a riprendere il treno per venire ad accucciarsi nella tana bolognese, che era per lui il salotto buono del caffè Zanarini, ad annoiarvisi, ad attendere l’ora di qualche film serale, anche questo come un modo di richiudersi, di medicare ferite lontane o vicine, in ogni caso immanenti, del resto molto bene calate nelle varie opere, che nel ristretto universo felsineo figuravano come meteoriti piovuti da chissà quali spazi alieni e sconosciuti.