Attualità

Dom. 23-4-17 (Giavazzi)

Ho avuto qualche lontano contatto con Francesco Giavazzi, negli anni ’80, a Cortina d’Ampezzo, dove le rispettive mogli beneficiavano di appartamenti dei genitori che permettevano a loro e ai consorti comode vacanze estive. Io allora ero già “qualcuno”, con cattedra universitaria a Bologna e entratura a Milano, alla corte del sindaco Tognoli, nel nome del Garofano, il che mi permetteva di organizzare mostre per esempio alla Besana, con grande meraviglia delle amiche, milanesi, di mia moglie, che non potevano credere che una persona di tanto modesta apparenza avesse tanto ascendente nella loro città. Giavazzi, a quei tempi, era soltanto un giovane di belle speranze. Poi i rapporti si sono invertiti, io sono affondato nel nulla, lui è diventato opinionista del Corriere, ospite di salotti televisivi, promosso talora a funzioni governative. Ma siamo rimasti su barriere opposte, io “statalista”, difensore della necessità che il governo intervenga nei momenti di crisi per rimediare alle colpe degli industriali, usi, dalle nostre parti, a chiudere le aziende, o a traslocare all’estero, e soprattutto a portare i loro soldi nei “paradisi fiscali”. Lui invece era già allora uno strenuo difensore del liberismo, come toccasana, come rimedio a tutti i mali, secondo lo slogan “meno pubblico, più privato”. In questo senso qualche tempo fa sulle colonne del Corriere è stato capace di esprimere una bestemmia, che cioè la crisi del ’29, negli USA, è stata aggravata dagli interventi statali di Roosvelt col new deal, diversamente le banche sarebbe riuscite a raddrizzare da sole la barca e a rimediare a una défaillance momentanea.
Ma ora non voglio riprendere l’intera velenosa querelle che ci separa, e sempre ci separerà, intendo piuttosto svolgere qualche commento in merito a una sua recente pubblicazione, esibita alla corte della Gruber, che assieme a Fazio è sempre pronta a “far piovere sul bagnato”, cioè a fare pubblicità a libri e film che non ne avrebbero bisogno. Nel libro e nel corso di una presenza in quel reputato salotto Giavazzi se l’è presa con la casta dei burocrati, e senza dubbio su di loro gravano numerose colpe. Però partecipava al dibattito un difensore d’ufficio di quella categoria, che giustamente ha fatto osservare che in definitiva la colpa ricade sui politici, sono loro che dovrebbero controllare l’efficienza dei burocrati, stimolarli a dare pronti adempimenti alle delibere conseguite in Parlamento. Strabuzziamo gli occhi, per esempio, quando apprendiamo che la tanto acclamata legge sulle unioni civili mesi e mesi dopo non è ancora applicabile proprio perché i burocrati non l’hanno accompagnata con i cosiddetti decreti attuativi. Ma non sarebbe stato compito dei politici vigilare a tale proposito? Forse non è loro colpa affrettarsi a menare vanto di leggi ottenute, in polemica con le parti avverse, voltando però subito dopo la testa e non curando che le cose seguano alle parole?
E dunque, si ricade in realtà all’atto d’accusa, tra i più soliti ma tante volte ingiustificati, contro i politici, da cui anche lo straripare del famigerato populismo. Ma forse trovo un punto di accordo con Giavazzi nel constatare che la vera casta dannosa per il nostro Paese è quella della magistratura. Se si facesse un referendum su chi è più mal visto tra noi, ritengo che il discredito verso i politici, e i burocrati come loro appendice, sarebbe superato da quello rivolto contro i magistrati, di cui nessuno ha fiducia, contrariamente alla frase stereotipata che tutti si affrettano a pronunciare, di nutrire piena fiducia verso quella categoria. Che invece è di bassissima produttività, come si vede soprattutto nel civile. E’ stato detto più volte che la scarsa appetibilità del nostro Paese per aziende straniere dipende proprio dalla lunghezza dei processi civili, interminabili, capaci di trascinarsi per anni e anni. A dire il vero, il cerchio si chiude, perché i magistrati a loro volta possono accusare i politici di sfornare leggi tortuose, labirintiche, di difficile e controversa applicazione. E poi, di nuovo, è colpa dei politici avere introdotto un terzo grado di giudizio, che credo sia una istituzione inesistente in ogni altro paese civile, allo stesso modo del bicameralismo perfetto, la pastoia, la soma di cui non siamo riusciti a liberarci.
Ho avuto qualche lontano contatto con Francesco Giavazzi, negli anni ’80, a Cortina d’Ampezzo, dove le rispettive mogli beneficiavano di appartamenti dei genitori che permettevano a loro e ai consorti comode vacanze estive. Io allora ero già “qualcuno”, con cattedra universitaria a Bologna e entratura a Milano, alla corte del sindaco Tognoli, nel nome del Garofano, il che mi permetteva di organizzare mostre per esempio alla Besana, con grande meraviglia delle amiche, milanesi, di mia moglie, che non potevano credere che una persona di tanto modesta apparenza avesse tanto ascendente nella loro città. Giavazzi, a quei tempi, era soltanto un giovane di belle speranze. Poi i rapporti si sono invertiti, io sono affondato nel nulla, lui è diventato opinionista del Corriere, ospite di salotti televisivi, promosso talora a funzioni governative. Ma siamo rimasti su barriere opposte, io “statalista”, difensore della necessità che il governo intervenga nei momenti di crisi per rimediare alle colpe degli industriali, usi, dalle nostre parti, a chiudere le aziende, o a traslocare all’estero, e soprattutto a portare i loro soldi nei “paradisi fiscali”. Lui invece era già allora uno strenuo difensore del liberismo, come toccasana, come rimedio a tutti i mali, secondo lo slogan “meno pubblico, più privato”. In questo senso qualche tempo fa sulle colonne del Corriere è stato capace di esprimere una bestemmia, che cioè la crisi del ’29, negli USA, è stata aggravata dagli interventi statali di Roosvelt col new deal, diversamente le banche sarebbe riuscite a raddrizzare da sole la barca e a rimediare a una défaillance momentanea.
Ma ora non voglio riprendere l’intera velenosa querelle che ci separa, e sempre ci separerà, intendo piuttosto svolgere qualche commento in merito a una sua recente pubblicazione, esibita alla corte della Gruber, che assieme a Fazio è sempre pronta a “far piovere sul bagnato”, cioè a fare pubblicità a libri e film che non ne avrebbero bisogno. Nel libro e nel corso di una presenza in quel reputato salotto Giavazzi se l’è presa con la casta dei burocrati, e senza dubbio su di loro gravano numerose colpe. Però partecipava al dibattito un difensore d’ufficio di quella categoria, che giustamente ha fatto osservare che in definitiva la colpa ricade sui politici, sono loro che dovrebbero controllare l’efficienza dei burocrati, stimolarli a dare pronti adempimenti alle delibere conseguite in Parlamento. Strabuzziamo gli occhi, per esempio, quando apprendiamo che la tanto acclamata legge sulle unioni civili mesi e mesi dopo non è ancora applicabile proprio perché i burocrati non l’hanno accompagnata con i cosiddetti decreti attuativi. Ma non sarebbe stato compito dei politici vigilare a tale proposito? Forse non è loro colpa affrettarsi a menare vanto di leggi ottenute, in polemica con le parti avverse, voltando però subito dopo la testa e non curando che le cose seguano alle parole?
E dunque, si ricade in realtà all’atto d’accusa, tra i più soliti ma tante volte ingiustificati, contro i politici, da cui anche lo straripare del famigerato populismo. Ma forse trovo un punto di accordo con Giavazzi nel constatare che la vera casta dannosa per il nostro Paese è quella della magistratura. Se si facesse un referendum su chi è più mal visto tra noi, ritengo che il discredito verso i politici, e i burocrati come loro appendice, sarebbe superato da quello rivolto contro i magistrati, di cui nessuno ha fiducia, contrariamente alla frase stereotipata che tutti si affrettano a pronunciare, di nutrire piena fiducia verso quella categoria. Che invece è di bassissima produttività, come si vede soprattutto nel civile. E’ stato detto più volte che la scarsa appetibilità del nostro Paese per aziende straniere dipende proprio dalla lunghezza dei processi civili, interminabili, capaci di trascinarsi per anni e anni. A dire il vero, il cerchio si chiude, perché i magistrati a loro volta possono accusare i politici di sfornare leggi tortuose, labirintiche, di difficile e controversa applicazione. E poi, di nuovo, è colpa dei politici avere introdotto un terzo grado di giudizio, che credo sia una istituzione inesistente in ogni altro paese civile, allo stesso modo del bicameralismo perfetto, la pastoia, la soma di cui non siamo riusciti a liberarci.
Ho avuto qualche lontano contatto con Francesco Giavazzi, negli anni ’80, a Cortina d’Ampezzo, dove le rispettive mogli beneficiavano di appartamenti dei genitori che permettevano a loro e ai consorti comode vacanze estive. Io allora ero già “qualcuno”, con cattedra universitaria a Bologna e entratura a Milano, alla corte del sindaco Tognoli, nel nome del Garofano, il che mi permetteva di organizzare mostre per esempio alla Besana, con grande meraviglia delle amiche, milanesi, di mia moglie, che non potevano credere che una persona di tanto modesta apparenza avesse tanto ascendente nella loro città. Giavazzi, a quei tempi, era soltanto un giovane di belle speranze. Poi i rapporti si sono invertiti, io sono affondato nel nulla, lui è diventato opinionista del Corriere, ospite di salotti televisivi, promosso talora a funzioni governative. Ma siamo rimasti su barriere opposte, io “statalista”, difensore della necessità che il governo intervenga nei momenti di crisi per rimediare alle colpe degli industriali, usi, dalle nostre parti, a chiudere le aziende, o a traslocare all’estero, e soprattutto a portare i loro soldi nei “paradisi fiscali”. Lui invece era già allora uno strenuo difensore del liberismo, come toccasana, come rimedio a tutti i mali, secondo lo slogan “meno pubblico, più privato”. In questo senso qualche tempo fa sulle colonne del Corriere è stato capace di esprimere una bestemmia, che cioè la crisi del ’29, negli USA, è stata aggravata dagli interventi statali di Roosvelt col new deal, diversamente le banche sarebbe riuscite a raddrizzare da sole la barca e a rimediare a una défaillance momentanea.
Ma ora non voglio riprendere l’intera velenosa querelle che ci separa, e sempre ci separerà, intendo piuttosto svolgere qualche commento in merito a una sua recente pubblicazione, esibita alla corte della Gruber, che assieme a Fazio è sempre pronta a “far piovere sul bagnato”, cioè a fare pubblicità a libri e film che non ne avrebbero bisogno. Nel libro e nel corso di una presenza in quel reputato salotto Giavazzi se l’è presa con la casta dei burocrati, e senza dubbio su di loro gravano numerose colpe. Però partecipava al dibattito un difensore d’ufficio di quella categoria, che giustamente ha fatto osservare che in definitiva la colpa ricade sui politici, sono loro che dovrebbero controllare l’efficienza dei burocrati, stimolarli a dare pronti adempimenti alle delibere conseguite in Parlamento. Strabuzziamo gli occhi, per esempio, quando apprendiamo che la tanto acclamata legge sulle unioni civili mesi e mesi dopo non è ancora applicabile proprio perché i burocrati non l’hanno accompagnata con i cosiddetti decreti attuativi. Ma non sarebbe stato compito dei politici vigilare a tale proposito? Forse non è loro colpa affrettarsi a menare vanto di leggi ottenute, in polemica con le parti avverse, voltando però subito dopo la testa e non curando che le cose seguano alle parole?
E dunque, si ricade in realtà all’atto d’accusa, tra i più soliti ma tante volte ingiustificati, contro i politici, da cui anche lo straripare del famigerato populismo. Ma forse trovo un punto di accordo con Giavazzi nel constatare che la vera casta dannosa per il nostro Paese è quella della magistratura. Se si facesse un referendum su chi è più mal visto tra noi, ritengo che il discredito verso i politici, e i burocrati come loro appendice, sarebbe superato da quello rivolto contro i magistrati, di cui nessuno ha fiducia, contrariamente alla frase stereotipata che tutti si affrettano a pronunciare, di nutrire piena fiducia verso quella categoria. Che invece è di bassissima produttività, come si vede soprattutto nel civile. E’ stato detto più volte che la scarsa appetibilità del nostro Paese per aziende straniere dipende proprio dalla lunghezza dei processi civili, interminabili, capaci di trascinarsi per anni e anni. A dire il vero, il cerchio si chiude, perché i magistrati a loro volta possono accusare i politici di sfornare leggi tortuose, labirintiche, di difficile e controversa applicazione. E poi, di nuovo, è colpa dei politici avere introdotto un terzo grado di giudizio, che credo sia una istituzione inesistente in ogni altro paese civile, allo stesso modo del bicameralismo perfetto, la pastoia, la soma di cui non siamo riusciti a liberarci.
Ho avuto qualche lontano contatto con Francesco Giavazzi, negli anni ’80, a Cortina d’Ampezzo, dove le rispettive mogli beneficiavano di appartamenti dei genitori che permettevano a loro e ai consorti comode vacanze estive. Io allora ero già “qualcuno”, con cattedra universitaria a Bologna e entratura a Milano, alla corte del sindaco Tognoli, nel nome del Garofano, il che mi permetteva di organizzare mostre per esempio alla Besana, con grande meraviglia delle amiche, milanesi, di mia moglie, che non potevano credere che una persona di tanto modesta apparenza avesse tanto ascendente nella loro città. Giavazzi, a quei tempi, era soltanto un giovane di belle speranze. Poi i rapporti si sono invertiti, io sono affondato nel nulla, lui è diventato opinionista del Corriere, ospite di salotti televisivi, promosso talora a funzioni governative. Ma siamo rimasti su barriere opposte, io “statalista”, difensore della necessità che il governo intervenga nei momenti di crisi per rimediare alle colpe degli industriali, usi, dalle nostre parti, a chiudere le aziende, o a traslocare all’estero, e soprattutto a portare i loro soldi nei “paradisi fiscali”. Lui invece era già allora uno strenuo difensore del liberismo, come toccasana, come rimedio a tutti i mali, secondo lo slogan “meno pubblico, più privato”. In questo senso qualche tempo fa sulle colonne del Corriere è stato capace di esprimere una bestemmia, che cioè la crisi del ’29, negli USA, è stata aggravata dagli interventi statali di Roosvelt col new deal, diversamente le banche sarebbe riuscite a raddrizzare da sole la barca e a rimediare a una défaillance momentanea.
Ma ora non voglio riprendere l’intera velenosa querelle che ci separa, e sempre ci separerà, intendo piuttosto svolgere qualche commento in merito a una sua recente pubblicazione, esibita alla corte della Gruber, che assieme a Fazio è sempre pronta a “far piovere sul bagnato”, cioè a fare pubblicità a libri e film che non ne avrebbero bisogno. Nel libro e nel corso di una presenza in quel reputato salotto Giavazzi se l’è presa con la casta dei burocrati, e senza dubbio su di loro gravano numerose colpe. Però partecipava al dibattito un difensore d’ufficio di quella categoria, che giustamente ha fatto osservare che in definitiva la colpa ricade sui politici, sono loro che dovrebbero controllare l’efficienza dei burocrati, stimolarli a dare pronti adempimenti alle delibere conseguite in Parlamento. Strabuzziamo gli occhi, per esempio, quando apprendiamo che la tanto acclamata legge sulle unioni civili mesi e mesi dopo non è ancora applicabile proprio perché i burocrati non l’hanno accompagnata con i cosiddetti decreti attuativi. Ma non sarebbe stato compito dei politici vigilare a tale proposito? Forse non è loro colpa affrettarsi a menare vanto di leggi ottenute, in polemica con le parti avverse, voltando però subito dopo la testa e non curando che le cose seguano alle parole?
E dunque, si ricade in realtà all’atto d’accusa, tra i più soliti ma tante volte ingiustificati, contro i politici, da cui anche lo straripare del famigerato populismo. Ma forse trovo un punto di accordo con Giavazzi nel constatare che la vera casta dannosa per il nostro Paese è quella della magistratura. Se si facesse un referendum su chi è più mal visto tra noi, ritengo che il discredito verso i politici, e i burocrati come loro appendice, sarebbe superato da quello rivolto contro i magistrati, di cui nessuno ha fiducia, contrariamente alla frase stereotipata che tutti si affrettano a pronunciare, di nutrire piena fiducia verso quella categoria. Che invece è di bassissima produttività, come si vede soprattutto nel civile. E’ stato detto più volte che la scarsa appetibilità del nostro Paese per aziende straniere dipende proprio dalla lunghezza dei processi civili, interminabili, capaci di trascinarsi per anni e anni. A dire il vero, il cerchio si chiude, perché i magistrati a loro volta possono accusare i politici di sfornare leggi tortuose, labirintiche, di difficile e controversa applicazione. E poi, di nuovo, è colpa dei politici avere introdotto un terzo grado di giudizio, che credo sia una istituzione inesistente in ogni altro paese civile, allo stesso modo del bicameralismo perfetto, la pastoia, la soma di cui non siamo riusciti a liberarci.
Ho avuto qualche lontano contatto con Francesco Giavazzi, negli anni ’80, a Cortina d’Ampezzo, dove le rispettive mogli beneficiavano di appartamenti dei genitori che permettevano a loro e ai consorti comode vacanze estive. Io allora ero già “qualcuno”, con cattedra universitaria a Bologna e entratura a Milano, alla corte del sindaco Tognoli, nel nome del Garofano, il che mi permetteva di organizzare mostre per esempio alla Besana, con grande meraviglia delle amiche, milanesi, di mia moglie, che non potevano credere che una persona di tanto modesta apparenza avesse tanto ascendente nella loro città. Giavazzi, a quei tempi, era soltanto un giovane di belle speranze. Poi i rapporti si sono invertiti, io sono affondato nel nulla, lui è diventato opinionista del Corriere, ospite di salotti televisivi, promosso talora a funzioni governative. Ma siamo rimasti su barriere opposte, io “statalista”, difensore della necessità che il governo intervenga nei momenti di crisi per rimediare alle colpe degli industriali, usi, dalle nostre parti, a chiudere le aziende, o a traslocare all’estero, e soprattutto a portare i loro soldi nei “paradisi fiscali”. Lui invece era già allora uno strenuo difensore del liberismo, come toccasana, come rimedio a tutti i mali, secondo lo slogan “meno pubblico, più privato”. In questo senso qualche tempo fa sulle colonne del Corriere è stato capace di esprimere una bestemmia, che cioè la crisi del ’29, negli USA, è stata aggravata dagli interventi statali di Roosvelt col new deal, diversamente le banche sarebbe riuscite a raddrizzare da sole la barca e a rimediare a una défaillance momentanea.
Ma ora non voglio riprendere l’intera velenosa querelle che ci separa, e sempre ci separerà, intendo piuttosto svolgere qualche commento in merito a una sua recente pubblicazione, esibita alla corte della Gruber, che assieme a Fazio è sempre pronta a “far piovere sul bagnato”, cioè a fare pubblicità a libri e film che non ne avrebbero bisogno. Nel libro e nel corso di una presenza in quel reputato salotto Giavazzi se l’è presa con la casta dei burocrati, e senza dubbio su di loro gravano numerose colpe. Però partecipava al dibattito un difensore d’ufficio di quella categoria, che giustamente ha fatto osservare che in definitiva la colpa ricade sui politici, sono loro che dovrebbero controllare l’efficienza dei burocrati, stimolarli a dare pronti adempimenti alle delibere conseguite in Parlamento. Strabuzziamo gli occhi, per esempio, quando apprendiamo che la tanto acclamata legge sulle unioni civili mesi e mesi dopo non è ancora applicabile proprio perché i burocrati non l’hanno accompagnata con i cosiddetti decreti attuativi. Ma non sarebbe stato compito dei politici vigilare a tale proposito? Forse non è loro colpa affrettarsi a menare vanto di leggi ottenute, in polemica con le parti avverse, voltando però subito dopo la testa e non curando che le cose seguano alle parole?
E dunque, si ricade in realtà all’atto d’accusa, tra i più soliti ma tante volte ingiustificati, contro i politici, da cui anche lo straripare del famigerato populismo. Ma forse trovo un punto di accordo con Giavazzi nel constatare che la vera casta dannosa per il nostro Paese è quella della magistratura. Se si facesse un referendum su chi è più mal visto tra noi, ritengo che il discredito verso i politici, e i burocrati come loro appendice, sarebbe superato da quello rivolto contro i magistrati, di cui nessuno ha fiducia, contrariamente alla frase stereotipata che tutti si affrettano a pronunciare, di nutrire piena fiducia verso quella categoria. Che invece è di bassissima produttività, come si vede soprattutto nel civile. E’ stato detto più volte che la scarsa appetibilità del nostro Paese per aziende straniere dipende proprio dalla lunghezza dei processi civili, interminabili, capaci di trascinarsi per anni e anni. A dire il vero, il cerchio si chiude, perché i magistrati a loro volta possono accusare i politici di sfornare leggi tortuose, labirintiche, di difficile e controversa applicazione. E poi, di nuovo, è colpa dei politici avere introdotto un terzo grado di giudizio, che credo sia una istituzione inesistente in ogni altro paese civile, allo stesso modo del bicameralismo perfetto, la pastoia, la soma di cui non siamo riusciti a liberarci.
Ho avuto qualche lontano contatto con Francesco Giavazzi, negli anni ’80, a Cortina d’Ampezzo, dove le rispettive mogli beneficiavano di appartamenti dei genitori che permettevano a loro e ai consorti comode vacanze estive. Io allora ero già “qualcuno”, con cattedra universitaria a Bologna e entratura a Milano, alla corte del sindaco Tognoli, nel nome del Garofano, il che mi permetteva di organizzare mostre per esempio alla Besana, con grande meraviglia delle amiche, milanesi, di mia moglie, che non potevano credere che una persona di tanto modesta apparenza avesse tanto ascendente nella loro città. Giavazzi, a quei tempi, era soltanto un giovane di belle speranze. Poi i rapporti si sono invertiti, io sono affondato nel nulla, lui è diventato opinionista del Corriere, ospite di salotti televisivi, promosso talora a funzioni governative. Ma siamo rimasti su barriere opposte, io “statalista”, difensore della necessità che il governo intervenga nei momenti di crisi per rimediare alle colpe degli industriali, usi, dalle nostre parti, a chiudere le aziende, o a traslocare all’estero, e soprattutto a portare i loro soldi nei “paradisi fiscali”. Lui invece era già allora uno strenuo difensore del liberismo, come toccasana, come rimedio a tutti i mali, secondo lo slogan “meno pubblico, più privato”. In questo senso qualche tempo fa sulle colonne del Corriere è stato capace di esprimere una bestemmia, che cioè la crisi del ’29, negli USA, è stata aggravata dagli interventi statali di Roosvelt col new deal, diversamente le banche sarebbe riuscite a raddrizzare da sole la barca e a rimediare a una défaillance momentanea.
Ma ora non voglio riprendere l’intera velenosa querelle che ci separa, e sempre ci separerà, intendo piuttosto svolgere qualche commento in merito a una sua recente pubblicazione, esibita alla corte della Gruber, che assieme a Fazio è sempre pronta a “far piovere sul bagnato”, cioè a fare pubblicità a libri e film che non ne avrebbero bisogno. Nel libro e nel corso di una presenza in quel reputato salotto Giavazzi se l’è presa con la casta dei burocrati, e senza dubbio su di loro gravano numerose colpe. Però partecipava al dibattito un difensore d’ufficio di quella categoria, che giustamente ha fatto osservare che in definitiva la colpa ricade sui politici, sono loro che dovrebbero controllare l’efficienza dei burocrati, stimolarli a dare pronti adempimenti alle delibere conseguite in Parlamento. Strabuzziamo gli occhi, per esempio, quando apprendiamo che la tanto acclamata legge sulle unioni civili mesi e mesi dopo non è ancora applicabile proprio perché i burocrati non l’hanno accompagnata con i cosiddetti decreti attuativi. Ma non sarebbe stato compito dei politici vigilare a tale proposito? Forse non è loro colpa affrettarsi a menare vanto di leggi ottenute, in polemica con le parti avverse, voltando però subito dopo la testa e non curando che le cose seguano alle parole?
E dunque, si ricade in realtà all’atto d’accusa, tra i più soliti ma tante volte ingiustificati, contro i politici, da cui anche lo straripare del famigerato populismo. Ma forse trovo un punto di accordo con Giavazzi nel constatare che la vera casta dannosa per il nostro Paese è quella della magistratura. Se si facesse un referendum su chi è più mal visto tra noi, ritengo che il discredito verso i politici, e i burocrati come loro appendice, sarebbe superato da quello rivolto contro i magistrati, di cui nessuno ha fiducia, contrariamente alla frase stereotipata che tutti si affrettano a pronunciare, di nutrire piena fiducia verso quella categoria. Che invece è di bassissima produttività, come si vede soprattutto nel civile. E’ stato detto più volte che la scarsa appetibilità del nostro Paese per aziende straniere dipende proprio dalla lunghezza dei processi civili, interminabili, capaci di trascinarsi per anni e anni. A dire il vero, il cerchio si chiude, perché i magistrati a loro volta possono accusare i politici di sfornare leggi tortuose, labirintiche, di difficile e controversa applicazione. E poi, di nuovo, è colpa dei politici avere introdotto un terzo grado di giudizio, che credo sia una istituzione inesistente in ogni altro paese civile, allo stesso modo del bicameralismo perfetto, la pastoia, la soma di cui non siamo riusciti a liberarci.

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