Arte

Il mondo satanico di Roberto Cuoghi

Un grosso volume accompagna la mostra che il Madre di Napoli dedica a Roberto Cuoghi (1973), perfetta rassegna di vent’anni della sua produzione (1996-2016), svoltasi nel segno di una piena coerenza nel picchiare su tutti i tasti di un espressionismo violento, tenace, implacabile. Ma forse dire espressionismo è insufficiente, bisogna chiedere aiuto ai generi romanzeschi, come ha proposto il critico più vivace del “Corriere della sera”, Vincenzo Trione, e dunque parlare di “noir”, di “horror”, di satanismo, il che vale a differenziare il nostro artista dai Neuen Wilden tedeschi, come per esempio Georg Baselitz, che in definitiva si attengono a moduli più consueti di deformazione delle figure. Mentre nel nostro autore si avverte appunto qualcosa di perverso, come del resto risulta dai titoli stessi dei saggi critici in catalogo, di Andrea Bellini, curatore della mostra, assieme al direttore del Madre, Villani. Vi si parla di dismisura, di perdita delle proporzioni, mentre Andrea Corlellessa, ben noto critico letterario che ora visita sempre più spesso anche le sponde del visivo, per parte sua parla di “asincronie”, ribadendo la presenza di una dismisura e di altri “misconcetti”. In sostanza, Cuoghi scende in campo per dare anche a noi un equivalente degli esiti feroci, disumani di cui sono prodighe certe vedettes attuali come Jan Fabre e Urs Fischer, per non parlare di Damien Hirst, dominatore dell’attuale scena veneziana con le due mostre a Punta della Dogana e a Palazzo Grassi. E il nostro Cuoghi, in particolare con lo straordinario allestimento nel Padiglione Italia della Biennale veneziana, ne è lo sfidante ufficiale. Tratto comune a questi cultori della perversità sta nel batterne le strade in tutti i modi possibili. Cominciamo a sfogliare le pagine del libro-catalogo, o a visitare le stanze della mostra, magari cercando di attenerci a una perlustrazione procedente dal meno verso il più. Si può cominciare con certe pagine di scrittura, ma piene di macchie, di cancellazioni, non alla maniera sistematica e fin troppo precisa di isgrò, bensì con una grafia selvaggia che ne fa qualcosa di simile a un documento trovato nella bottiglia. Poi magari c’è la visitazione del mondo incantato dei fumetti, ma i personaggi sono distolti dal loro tradizionale buonismo, dal candore infantile, nei volti compaiono delle smorfie minacciose, gli occhi in particolare sono stravolti, come se i vari personaggi portassero lenti deformanti. La lebbra, la corruzione si estende poi alle pelli, rugose, colpite da qualche infezione incontenibile. O se a prima vista resistono immagini conformi, fotografiche, ben presto sulle epidermidi si aprono ferite che rivelano lo sfacelo degli organi interni. I quali del resto stentano a mantenere una conformazione normale, venendo presi più che altro a frammenti, come fossero i resti dell’intervento di un Jack lo Squartatore, e dunque vendiamo mani ormai colpite da un processo di putrefazione, proprio come succede nei “gialli”, con invito ad aprire un’indagine nel tentativo di scoprire a chi appartengono quei poveri lacerti. Del resto, a farci capire che siamo nel regno del male, Cuoghi non manca di modellare immagini appunto sataniche, capaci di evocare davvero il Maligno. Mi viene in mente il film-capolavoro del resista Polanski, “Rosemary’s Baby”, che poi sarebbe il parto orrido di un figlio del Diavolo, tanto da meritare il sottotitolo “Nastro nero a Manhattan”. Infatti le aste, i pennoni del nostro artista inalberano orride apparizioni del demonio. E forse è per ordine suo, orditore di disastri atomici, che dal mare emergono solo pesci asfissiati, o comunque corpi mozzi, relitti di una catastrofe ambientale. Il che del resto trova conferma nell’emersione di rocce contorte, residui di terremoti, di sconvolgimenti tellurici, una via che porta il Nostro a gareggiare con le plastiche attorte di Tony Cragg, ma lo scultore inglese, in definitiva, è troppo serio e pulito, nel suo imitare le contorsioni geologiche, mentre gli stessi processi, nel caso di Cuoghi, volgono pur sempre verso il nero, il macabro, l’infernale. Del resto, la solidità delle rocce non tarda a liquefarsi. Aderendo a un repertorio del dissolversi, del degradarsi insanabile, l’artista si dà a praticare gli stati liquidi della materia, o diciamo meglio gli stati schiumosi, dove questa si trasforma in una broda infernale, simile a quella alimentata dalle streghe del Macbeth shakespeariano, a conferma che è sempre in agguato un transito verso esiti letterari. Questo statuto incerto, vischioso, magmatico si impadronisce anche degli utensili in partenza più tranquilli e consueti, per esempio delle forbici, che si sciolgono anch’esse, o con lame che diventano simili alle chele delle aragoste. Siamo in presenza di un passaggio continuo tra i diversi stati della materia, e anche tra le varie ere geologiche. Il calderone è sempre in piena ebollizione, non si sa che cosa ne potrà saltar fuori, il che ci riporta all’esito finale di tutte queste dismisure e asincronie, per dirla ancora una volta con gli esegeti di questo processo sempre aperto, ovvero alla installazione della Biennale, risultato perfetto, punto d’arrivo finale di tutte queste mosse. Resta solo da esprimere un dubbio, da parte di un commentatore, pur stupito e ammirato di fronte a tanta consapevole irruenza: che ce ne facciamo in definitiva di tutte queste violenze e trasgressioni? Non sarebbe meglio che queste colate di lava rientrassero in alvei più accettabili? Non per nulla, poco fa, proprio su queste pagine in libertà. ho espresso il mio consenso alla galleria di ritratti, fin troppo “normali”, abozzati da David Hockney.
Roberto Cuoghi, Perlapollina 1996-2016, a cura di Andrea Bellini e Andrea Villani, Napoli, MADRE, fino al 18 settembre.

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