Attualità

La mia pagella per il primo anno di Renzi

Può sembrare un atto di pura presunzione che uno come me, senza alcuna particolare competenza in materia politica, pretenda di esprimere un parere sul primo anno di governo di Matteo Renzi, ma in fondo, perché no? Sono, come si dice, un cittadino che paga le tasse e che vota regolarmente ad ogni tornata elettorale, inoltre ho un solido ancoraggio nell’area pd, sono stato collaboratore dell’”Unità” fino a un giorno primo della sospensione delle sue pubblicazioni, nutro l’auspicio che queste possano riprendere.

Dunque, in termini di voti da mettere in pagella, darei un pieno assenso al Renzi delle riforme istituzionali ed elettorali, a dispetto dei “gufi” di ogni specie che si accaniscono contro di lui. Era ora che qualcuno si buttasse a corpo morto a fare le riforme che tutti auspicavano a parole, ma poi trovando invariabilmente il modo di farle slittare in avanti. Giustissima è la riforma che riguarda il Senato. Se si voleva interrompere il funesto bicameralismo perfetto, l’unico modo era proprio di togliergli la funzione deliberativa sulle leggi. E se si voleva praticare un risparmio, occorreva appunto non più procedere alla nomina di un corpo di persone inevitabilmente chiamate ad arricchire le stanze del Palazzo. Ridicola l’ipotesi di mantenere entrambe le camere, procedendo solo a una sfoltita dei numeri per ciascuna di esse. Fatti salvi alcuni possibili ritocchi tecnici, in linea di massima quella è stata la via giusta da imboccare, e speriamo che vada felicemente in porto superando le barriere ostruzionistiche che tutti i gufi, da una parte e dall’altra, si preparano a opporle. Questa riforma, poi, risulta inevitabile e prioritaria per andare eventualmente a nuove elezioni prima del tempo, anche se al momento mi pare che nessuno le voglia. Ma non si sa mai, è dovere di un Paese che si rispetti tenere pronta una legge elettorale che si rispetti, e questa evidentemente deve avere sgombrato sul proprio cammino il pesante ostacolo di una persistenza del Senato. L’attuale ipotesi non va del tutto bene alle sinistre, dentro e fuori del pd? Ma Bersani si deve ricordare della sua “non vittoria”, a cui egli aveva reagito correttamente tentando di evitare la “grosse”, pardon, “kleine coalition” con Berlusconi e suoi succubi, ma a furor di popolo, a cominciare dal presidente Napolitano, si decretò che quell’alleanza contro natura si dovesse fare, al che Bersani, anche in tal caso in modo corretto, si fece da parte, e dunque, dobbiamo ricordare tutti che Renzi non è arbitro di fare quello che vuole, è stato costretto a mercanteggiare inizialmente con Berlusconi, da cui il Patto del Nazzareno, e ora col pnd che si difende facendo la faccia feroce e tentando di dare del filo da torcere, come avviene oggi sui limiti della prescrizione o sull’eterna pretesa della destra che si finanzi anche la scuola privata, in genere di impronta confessionale.
Le cose cambiano se invece veniamo sul fronte del Jobs Act, a proposito del quale sarei restio a dare la sufficienza a Renzi, in questa mia approssimativa pagella, o almeno non sarei sicuro di potergli riconoscere un’impostazione di sinistra. In tema di lavoro, ci sono due versanti per affrontare la questione, la destra, l’eterno liberismo sul tipo di quello propugnato dalla coppia Giavazzi-Alesina, intona il solito ritornello, bisogna “lasciar fare” alle imprese private, e dunque agevolare le assunzioni da parte loro, e prima ancora la possibilità di licenziare i lavoratori ritenuti inutili sulla via dell’efficienza, per questo verso forse il Jobs Act funziona, e infatti incontra l’approvazione di quanti sono sostenitori del liberismo e derivati. Ma la sinistra parte invece dal presupposto che nei tempi di crisi tocca alla comunità, allo stato, al governo intervenire massicciamente procurando investimenti, grandi opere, lavori piubblici, che invece è quanto non pare proprio che il governo Renzi stia facendo. Il grande esempio fornito in questo campo è venuto da Franklin Roosvelt, che negli USA pose rimedio alla grande crisi del ’29 cercando appunto di assicurare occasioni di impiego alle moltitudini di cittadini disoccupati, si fece perfino carico degli artisti, lanciando anche per loro un’impresa di interventi con grandi murali sulle pareti degli edifici pubblici, sulla scia dei muralisti messicani, e di un simile aiuto poté beneficiare perfino un disoccupato di lusso qual era a quei tempi Jackson Pollock, che così cominciò a dimostrare il proprio talento.

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