Purtroppo Antonio Moresco c’è cascato ancora. Ho appena finito di deplorare le mille e più pagine degli “Increati” usciti l’anno scorso, che già egli ci propone, pur in misura ridotta di un terzo, “L’addio”, ma incorrendo nel medesimo reato di bulimia incontenibile, di mancanza di freni, di stancanti ripetizioni senza un briciolo di controllo. E dunque, si rinnova in me, e suppongo in altri, la deplorazione per non ritrovare più in lui il magnifico estensore dei “Canti del caos”, l’opera del 2009 in cui compendiava un più che decennale laboratorio colmo di ottimi esiti, da porlo in squadra con Aldo Busi nella pratica di un forte, incalzante espressionismo, a sua volta erede di qualche traccia del miglior Gadda. Ma a dire il vero già in quell’”opus magnum”, verso la fine, baluginava il sospetto che il cavallo di razza stesse per “rompere”, passando da un trotto ben registrato a un galoppo frenetico e smodato, come mi avveniva di osservare, con qualche preoccupazione per il futuro di questo narratore, recensendolo su “Tuttolibri”. Poi mi era stata data ancora licenza di recensire il successivo “Gli incendiati”, 2010, prima che la mia collaborazione a quel supplemento venisse “rottamata” d’ufficio (di chi e per quali colpe mie?). Già a quell’altezza Moresco usava e abusava di una invenzione in sé ingegnosa e passibile di valide applicazioni, che era di praticare una specie di equipollenza tra la vita e la morte, con personaggi che appunto trapassavano tranquillamente, ma continuando a fare dall’altra parte quanto erano abituati a praticare finché erano rimasti tra di noi, e dunque le due facce del cosmo risultavano un po’ troppo paritetiche. Mi è rimasta in sospeso una recensione al successivo “Lucina”, 2013, dove già compariva un ingrediente che avrebbe potuto essere la carta vincente di questa ultima prova, cioè l’inserzione di una presenza infantile che emette deboli segnali di sussistenza inducendo il narratore a una laboriosa ricerca. Ma poi, anche in quell’occasione si giungeva a scoprire che il bambino era deceduto, senza che nulla cambiasse nel ritmo di vita, suo e di ogni coetaneo, e dunque era tenuto a recarsi ogni giorno a scuola, come avrebbe dovuto fare se fosse stato ancora nel mondo di qua. Moresco infatti frequenta, magari senza ammetterlo, la narrativa e il cinema dello horror, nel che non c’è nulla di male, ma dovrebbe studiare un po’ meglio i marchingegni attraverso cui i maestri del genere, Stephen King per il versante cartaceo, il regista Alejandro Amenàbar de “Gli altri” per quello filmico, insegnano come si può superare la soglia fatale.
Infatti in questo “Addio” il dato più noioso e insostenibile è l’assoluta eguaglianza dei due universi. Il protagonista, tale D’Arco, agente di polizia, confessa fin dalle prime battute di essere stato ucciso, crivellato di colpi che lo hanno ridotto a un colabrodo coprendo di cicatrici la sua pelle, ma del regno dei morti di cui ora è abitatore non sa dirci nulla di essenzialmente diverso da quello dei viventi, nell’uno e nell’altro si accalcano le medesime folle sterminate, disperse in strade e abitazioni che condividono il medesimo squallore. Non solo, ma ad aggravare la sostanziale identità tra i due universi, e dunque la caduta di un decisivo valore narrativo nell’evocarli, ci sta anche la facilità, o diciamo meglio l’indifferenza con cui il nostro D’Arco passa dall’uno all’altro, qui appunto il nostro narratore dovrebbe inventare qualche marchingegno per rendere difficile il passaggio, o quanto meno per legarlo a determinate regole da rispettare, evitando che il transito si riduca a una passeggiata indifferenziata, come lanciare in aria i due versi della stessa medaglia, senza riuscire a distinguerli.
L’altro elemento che potrebbe dare spessore ed emozione alla vicenda è un lontano pigolio di bambini che si lamentano, nel che evidentemente Moresco si ricorda della “Lucina” sopra menzionata, trasferendo la minuta testimonianza infantile da un ambito di segnaletica luminosa a uno di natura acustica, e diciamo pure che quegli sparuti gridi di un’infanzia maltrattata, come esili pigolii di nidiate di uccelli sottoposte a minaccia, funzionano abbastanza bene, e qualche interesse lo provoca pure l’ingegnosa “caccia al tesoro” con cui il defunto cerca di reperire da dove vengano le deboli risonanze. Lo scoprire che quei fanciulli sono stati vittime di nefande torture fa scattare in lui la natura del vendicatore, col proposito di rientrare nel nostro mondo dove imperversano i malvagi oppressori della povera infanzia. Accanto a D’Arco, c’è pure uno di quei bambini che lo aiuta e si erge a difensore spontaneo della sua condizione umana così oppressa e perseguitata. Ma poi, posti in scena questi elementi che potrebbero movimentare la storia, Moresco cade nel solito difetto di una ridondante moltiplicazione di effetti speciali, di scontri e duelli senza fine, tra la coppia vendicatrice e i “cattivi” che li assediano da tutte le parti, come in un film di Tarantino, ma senza i colpi di genio del regista statunitense.
Antonio Moresco, L’addio, Giunti, pp. 274, euro 15.