Una mostra a Brescia mi permette di riaprire un dossier sull’arte di Mimmo Paladino, già tante altre volte e occasioni da me affrontato. La modalità è intelligente, infatti l’artista colloca la sua produzione, soprattutto in scultura, secondo la formula del “site specific”, andando a occupare piazze, interni di chiese e altri luoghi della città lombarda. In genere io di Paladino ho detto bene, riconoscendogli una capacità cromatica degna di un Matisse, che non è elogio da poco, come del resto mi sono espresso in termini positivi anche nei confronti dei suoi quattro colleghi della Transavanguardia. Ma ogni volta ho pure recriminato che la fame di potere dell’abominevole ABO abbia voluto introdurre una nociva selezione, pretendono di fare di quei cinque come dei primi della classe, separati da tanti altri colleghi del tutto degni, e anche anteriori nell’imboccare un sentiero per gran parte comune. Purtroppo questa sua decisione è stata accolta e premiata dalla maggior parte dei critici della generazione di mezzo, supini e gregari nell’accogliere quella sua proposta, così come, ancora prima, avevano accolto la precedente proposta emessa da Germano Celant relativa all’Arte povera. E’ nato così il fenomeno che chiamo Germanabo, del tutto dannoso per chi voglia fare la storia autentica di un momento davvero positivo della nostra arte recente, simile, mezzo secolo dopo, a quanto era avvenuto negli anni Venti, ma allora, se non sbaglio, tra Novecentisti e seguaci di “Valori plastici” e altro, non ci fu l’assurdo gioco al massacro divampato invece alcuni decenni dopo per le colpe sopra denunciate.
Ma venendo alla mostra bresciana di Paladino, purtroppo essa è incentrata sull’aspetto peggiore della sua arte. Infatti è vero che in essa è quasi sempre presente la figura umana, però funzionante, e ancora una volta si può fare riferimento a Matisse, come un “repoussoir”, come una barriera di contenimento, o come un aiuola per dare un limite ai fazzoletti frementi di sensibilità cromatica. E dunque le icone sono parti integranti dell’opera, questa è la fisiologia della pittura di Paladino. Quando invece quei corpi vengono estratti quasi con le pinze e costretti a esistere in sé e per sé, quando cioè diventano statue, monoliti, allora le cose non vanno, Paladino retrocede davvero alla scultura del passato, roba da ricordare gli anni Trenta di un Marino, come si evince da un cavallo rigido, schematico, seppure opposto a un eccellente sfondo monumentale. E quando compaiono davvero esseri umani, essi se ne stanno impalati, come capita di incontrare nei fenomeni dell’arcaismo, ai tempi del “kouroi” dell’arte greca. L’ostinazione di Mimmo nel volersi scultore viene punita, menomata proprio dalla mancanza di articolazioni conferite alle membra, incollate ai corpi. Forse in un esercizio del genere lo superano i compagni di cordata, Enzo Cucchi, non certo portato a premiare nel suo repertorio gli esiti plastici, però sa dare anche ad essi quel senso di aggressione aguzza, tagliente, aggressiva che promana soprattutto dai suoi dipinti, ben lungi dal quietismo soporifero da cui sono attinti i corpi di Paladino. Perfino Chia, la cui tavolozza risulta pesante, sfacciata, stonata, niente a che vedere con le preziose stesure di Paladino, ritrova negli esiti scultorei una capacità di aprirsi in anfratti di denso gusto barocco. Per non parlare dei miei amati Nuovi-nuovi, con un Mainolfi in pole position nell’uso di materiali soffici, a un passo da fini trine e merletti di superficie. E ci sono anche le ceramiche di Ontani, anch’esse pronte a fondere intensità cromatica e gonfiore volumetrico. Del resto, se lo stesso Paladino dimentica la pretesa di darci corpi a sé stanti, immobili come spaventapasseri, se riduce le sue figure a stecche incrociate e deposte su un pavimento, riesce a ridivenire sferzante, stimolante, come avviene soprattutto negli “Specchi ustori”, che hanno il pregio di rinunciare al blocco unico e di animare la superficie con tanti micro-eventi. Per non parlare di un “Velario” in cui riemerge la virtù principale del nostro artista, che è di animare la superficie, di istoriarla con interventi abilmente disseminati nello spazio. Un’arte, insomma, centrifuga, e non centripeta.
Mimmo Paladino, Ouverture, vari luoghi di Brescia, fino al 7 gennaio. Studio Esseci.