“Artribune” del 9 novembre scorso reca la notizia che un dipinto di Giorgio Vasari, “La tentazione di S. Antonio”, è stato battuto a un’asta Pandolfini per 800.000 euro. Non sembra un prezzo eccessivo, data la popolarità dell’autore, che però non è mai stato molto stinato nella sua attività diretta di pittore, nulla di simile alla celebrità che giustamente gli è venuta dalle “Vite”, si sa che perfino i suoi concittadini meditarono di scialbare i suoi affreschi della cupola del Duomo. E’ un amaro destino che si è ripetuto tante volte, anche ai nostri giorni, quando non c’è stato quasi alcuno storico dell’arte che pur con qualche esitazione non abbia pure manovrato la matita o il pennello. E anche l’Aretino non fa eccezione, io lo considero imbattibile come storiografo, ritengo che la sua concezione delle tre maniere che si susseguono da Cimabue in su costituisca un picco di intelligenza critica insuperabile, soprattutto per quanto concerne la terza maniera, da lui proclamata “moderna” per eccellenza, dando prestigio e lunghi destini a quel termine in sé abbastanza frusto. Accanto alla perspicuità della etichetta, sta il merito di avervi raccolto una splendida pattuglia, aperta da Leonardo, continuata, a Venezia, da Giorgione e Tiziano, a Roma da Raffaello, però con un Michelangelo tale da inserire una nota di disturbo. Presenza altisonante, quella del Buonarroti, ma non troppo in linea proprio con i canoni del “moderno”. Infatti gli interi secoli devoti a quella causa, ‘600 e ‘700, non furono certo ossequienti al nume michelamgiolesco, che per ritrovare un pieno riscatto dovette attendere la comparsa di artisti di decisa proclamazione anti-moderna come Fuseli e Blake. E proprio il primato che Vasari gli attribuiva fu anche per lui una nota di disturbo, l’introduzione di una pericolosa ambiguità tra la nozione, tanto perspicua, di maniera moderna, o invece di “bella maniera”, a cui nel suo esercizio della pittura l’Aretino fu decisamente più incline, trascinandosi dietro il Salviati, e facendone un qualcosa di distintivo e di contradditorio rispetto a un Manierismo autentico, dei Pontormo e Rosso Fiorentino e Giulio Romano, in piena rivolta proprio verso i canoni del “moderno”. Se esaminiamo il dipinto andato all’asta, vi troviamo proprio gli aspetti in cui l’autore inclina verso la maniera da dirsi “bella” piuttosto che davvero moderna. I corpi si accumulano, stipano lo spazio, invece di distribuirsi con una sapiente distanziazione, quale sapevano realizzare gli autentici “moderni”. E certo, c’è il trionfo della carne viva, secondo uno dei tratti tipici della terza maniera, ma è carne un po’ troppo adiposa, perfino flaccida, troppo rotondeggiante, così come i gesti appaiono alquanto declamatori, ben lontani dalla sublime indifferenza, naturalezza, verosimigliamza che potremmo trovare in un Raffaello o in un Tiziano. In conclusione, e come referto finale, qui e altrove il Vasari resta prigioniero del “bello” piuttosto che del “moderno”, nonostante la sua eccellente caratterizzazione verbale di questa maniera.