Arte

Whiteread, la forza del negativo

La visita virtuale di questa settimana (ma ormai diviene possibile anche effettuarne in via reale) mi porta in una delle sedi di Gagosian, quella di Londra, dove sono esposte opere di Rachel Whiteread, il che mi consente anche di riprendere un tema già da me toccato l’altra domenica a proposito di Chiara Dynys. Certamente dobbiamo compiacerci dell’avvenuta crescita di stima e di riconoscimenti nel caso di artiste donne, il che però non deve passare per una cancellazione delle appartenenze sessuali, come fossero dati marginali, tali da danneggiare la stima da rivolgere all’arte al femminile. Al contrario, questa parità di dignità, raggiunta con tanta fatica, deve consistere nel pieno apprezzamento di quanto valgono, a fare stile, differenza di valore. i dati sessuali, anche oltre il rapporto maschile-femminile, fino a far posto a tutte le possibilità intermedie, dell’omo e del trans. Trovo subito un dato eloquente in questo senso. Se pensiamo a un movimento tipico della congiuntura del ’68, forse addirittura il più tipico, quale il Minimalismo, non riusciamo ad ascrivergli nessuna protagonista di valore al femminile. E dunque, lo ha caratterizzato, potremmo dire, una specie di maschilismo, forse dovuto al fatto che quell’indirizzo implicava una massiccia occupazione dello spazio, ottenuta col ricorso a materiali solidi, quasi sempre di estrazione metallica. O tutt’al più da quella esibizione di forza muscolare, proprio nella misura che questa si estendesse oltre ogni limite, si passava a forme di carattere “concettuale”, come dimostrava il caso eloquente di Sol Lewitt. Qui si pone il caso della nostra Whiteread, cui in prima istanza non si può certo negare una appartenenza al Minimalismo, ma per così dire praticato alla rovescio, quasi come in algebra si passa dai numeri positivi ai negativi. Ovvero, la nostra Rachel si attacca non ai pieni, bensì ai vuoti, alle cavità, anche se è vero che poi di quei vuoti si affretta a prendere dei calchi, ma in genere con materiali fragili e deboli, come il gesso. E se poi li solidifica, lo fa in modo da salvaguardarne la trasparenza, il carattere aereo, impalpabile. Col che vengono in mente tanti processi simili, presenti per esempio nelle catastrofi vulcaniche, come quella celebre fra tutte di Pompei, con le ceneri che nella loro inarrestabile penetrazione riempiono le cavità di stanze, o addirittura gli ingombri carnali dei poveri esseri umani e animali, destinati alla consunzione, ma resi visibili da quella leggera imbottitura dovuta proprio alla penetrazione delle ceneri. O si può anche pensare ai fenomeni assai simili che ci vengono dati dalla natura, attraverso lo sgocciolio plurisecolare di sostanze ancora una volta in sé leggere, quasi invisibili, che però a lungo andare danno luogo alle stalattiti e alle stalagmiti. La nostra Whiteread si impadronisce di questo codice genetico e lo riproduce a modo suo, andando a occupare gli Internal Objects, come giustamente suona il titolo di questa sua mostra, del resto estensibile a ogni altro intervento di Rachiel, praticato sempre con ferrea coerenza e sistematicità, in un trionfo del negativo, con la forza, però, di farne un positivo, come fosse la manifestazione più piena, veritiera, appropriata della realtà. In definitiva, è il femminile che vince sul maschile.
Rachel Whiteread, Internal Objects, London Gagosian, fino al 6 giugno

Standard