Letteratura

Bajani: troppa presenza del “dolore”

Seguo Andrea Bajani, dal 2014, quando ha pubblicato il suo terzo romanzo, “La vita non è in ordine alfabetico”, cui ho dedicato un “pollice” positivo sull’”Immaginazione”. Non saprei dire se l’attuale “Un bene al mondo” segni un progresso o un regresso. Costante in questo autore è un tono favolistico, di regressione a miti dell’infanzia, o di un’umanità che comunque ritrova in sé un buonismo di fondo, ma in quella prova lo spezzettamento della narrazione in tanti episodi permetteva che in ognuno di essi scattasse un motivo “contro”, l’ intrusione di uno spunto cattiveria, o quanto meno di un rovesciamento rispetto a un normale decorso dei fatti. Qui invece l’unitarietà e linearità del racconto sottopone maggiormente il narratore al pericolo di cedere a quella sua corda istintiva. Il mondo, cioè, resta affidato in grado eccessivo agli occhi dell’innocenza, di un “bambino” e di una “bambina”, oltretutto definita continuamente “sottile”, come un epiteto di marca omerica, sul tipo dell’aurora “dalle rosee dita”, ripetuto con insistenza programmatica, che dal prosastico intende proprio scantonare nel lirico. Per evitare questo pericolo interviene il principale accorgimento tematico di quest’opera, ovvero Bajani dota i suoi protagonisti “innocenti”, e con loro ogni altro personaggio che entra in scena, di una sorta di “doppio”, potremmo dire di una scatola nera, che però in questo caso, in linea col tono complessivo adottato, sarebbe da dire “candida”, O si potrebbe parlare di un angelo custode, ma pur di specificare che questa presenza aggiunta si pone nel segno del “dolore”, come un distillato delle “lacrimae rerum”, per dirla con Virgilio, o di una serie di ombre chiamate proprio a contrastare la vicenda che diversamente minaccia di scorrere troppo infantilmente serena. Devo anche registrare una certa vicinanza con l’opera di cui ho appena parlato la volta scorsa, il “Non devi dirlo a nessuno” di Riccardo Gazzaniga, nei cui confronti noto una certa ingiustizia, nessuno fin qui, se non sbaglio, se n’è ancora occupato, mentre su Bajani leggo già oggi due recensioni, positive, sull’”Espresso” e sulla “Lettura” del “Corriere”, forse dovute, a parte un legittimo riconoscimento della validità del romanzo, alla notoria attività critica del suo autore. In fondo, in entrambi i casi si tratta di un “piccolo mondo”, non diciamo “antico”, ma di provincia remota, con quartieri diversi, alcuni prosperi, altri immersi nel degrado, e beninteso ci sono confini, linee divisorie tra i due mondi, che i due fidanzatini superano per andarsi a trovare, recandosi dietro i rispettivi ingombranti “dolori”. Più schietto e disteso è il racconto di Gazzaniga, che ritrova forse la mente analitica cui lo destina la sua professione di poliziotto, capace quindi di movimentare la scena, altrimenti piatta, con motivi di trama da giallo, o addirittura da vicenda nera. Invece al confronto Bajani è più disarmato, costretto a procedere solo affidandosi ai buoni sentimenti, alla delicata storia che lega i due piccoli personaggi, vittime delle difficoltà nascenti dallo stato sociale in cui è immersa quell’intera comunità. A movimentare la scena ci stanno solo i “dolori” che ciascuno si porta dietro, anch’essi simili a formule da epica primitiva, e in definitiva alquanto stucchevoli, proprio nel loro smodato ripetersi, considerato che, come detto sopra, non solo i due “bambini” ne sono portatori, ma questi affiggono chiunque entra ad animare la trama, in cui ritroviamo tante circostanze prevedibili, i conflitti di coppia, tra padre e madre del protagonista numero uno, e poi gli stessi ostacoli che si frappongono nella relazione dei due primi attori, fino a rarefare i loro incontri, anche perché “lui” è seguito nel crescere degli anni, a un certo momento ci compare nei panni dell’adulto che si è recato in città, dove la tenera relazione iniziale si stinge, si rarefà, svanisce nel nulla. Forse il momento più intenso è quando il “bambino”, vittima congenita di malinconia e di un senso mortuario dell’esistenza, si reca nel cimitero locale a meditare sulle tombe, sentendosi già pronto a vivere per sempre in quel luogo, ovviamente propizio al “dolore” incombente su di lui. In quei passaggi Bajani ci ricorda un grande precedente, “Il ragazzo morto e le comete”, capolavoro giovanile di Parise, forse un rinvio più appropriato rispetto a uno diverso rivolto alla “Lucina” di Antonio Moresco, che al confronto è vicenda troppo fumosa e indefinita. Un vantaggio, ma anche un torto, della vicenda di Bajani è di lasciar intravedere tra le maglie un decorso troppo normale, anche se gravato dalla continua apparizione dei “dolori”, appannaggio ineliminabile ma anche un po’ stancante, di ogni personaggio.
Andrea Bajani, Un bene al mondo, Einaudi, pp. 134, euro 16,50.

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