Ho letto qualche giorno fa sul “Corriere della sera” un fondo di Angelo Panebianco con cui, una volta tanto, sono stato d’accordo. Vi faceva notare come inutile e a sproposito fosse lo sdegno di quanti hanno reagito alle varie ammonizioni giungenti dall’estero, con cui ci invitavano a meditare bene, prima di bocciare il mutamento costituzionale su cui andremo a pronunciarci nel referendum in arrivo. C’è poco da fare, la cosa non è solo un avvenimento “in famiglia”, da lasciare che ce la sbrighiamo fra noi, assume anche una enorme rilevanza internazionale, come se, in vista della Brexit, a nostra volta avessimo dovuto chiuderci in un reverente silenzio, senza manifestare ansia e timore per come poi sono andate, male, le cose. Da ciò Panebianco ne ricava la morale che al giorno d’oggi tutto è globalizzato, interferente. In parte, gli si può dare ragione, ma non fino in fondo. In merito io ho più volte espresso una riflessione, proprio contro i presupposti di un mercato totalmente libero. Questo è una minaccia intollerabile finché nel mondo esistono delle disparità enormi sul costo del lavoro, ovvero non si può concedere ai nostri industriali di andare a produrre nel terzo mondo, come pretendono di fare i piastrellari di Sassuolo e i tessitori di Prato, e anche la stessa Fiat. Oppure, sì, lo facciano pure, ma quei prodotti siano venduti solo nelle piazze in cui sono stati fabbricati a prezzi di assoluta convenienza, senza essere reintrodotti in Europa, dove evidentemente causerebbero la disoccupazione dei nostri operai, o l’obbligo per loro di accettare un abbassamento insostenibile di retribuzioni, con la conseguente perdita di poteri di acquisto. Insomma, finché anche in altri Paesi, compresi quelli dell’Europa non in linea coi nostri parametri, il costo del lavoro è più basso, sembra doveroso imporre dei diritti doganali tali da bilanciare questi squilibri, in barba ai sacri precetti del mercato libero. I sindacati dei nostri Paesi dovrebbero fare loro un requisito del genere e battersi alla morte per imporlo.
Visto che sto parlando di fondi del “Corriere”, non faccio certo la pace con quelli di Giavazzi, strenuo difensore del liberismo. Qualche giorno fa ha scoperto che i nostri “capitani coraggiosi” dell’industria privata tanto coraggiosi, poi, non lo sono, ma alle prime difficoltà vendono e fuggono, come dimostrano molti casi recenti. Per cui, in definitiva, se vogliamo che il nostro PIl risalga, dobbiamo rivolgerci al pubblico intervento, tanto deprecato proprio da Giavazzi, che teme come la peste ogni iniziativa dello Stato. In tutto questo tempo sono sempre stato allineato al renzismo, tranne che nella fiducia da lui riposta nel Jobs Act, proprio per i miei dubbi sull’energia dei nostri privati, che anche in questo caso appena sono venuti meno gli scarichi fiscali loro concessi dal governo, hanno cessato di assumere. Molto più lungimirante in merito è stata la politica di Obama, che ha visto il potere federale investire miliardi di dollari per rilanciare il mercato, in linea con gli aurei insegnamenti di Roosvelt e del suo new deal. Inoltre, sempre in materia di capitani coraggiosi, semmai un po’ di coraggio si trova nei capetti delle piccole aziende, se si deve dare credito ai messaggi di De Rita. La produzione italiana è salvata, anche per l’export, dalle fabbrichette che sono tanto ingegnose anche a livello di nuovi impianti nel coprire settori sussidiari, macchine per incartare, per rispondere a richieste dell’indotto. Da lì viene la nostra speranza di sviluppo, se lo Stato corre in aiuto con le infrastrutture necessarie. Infine, un’ultima considerazione: nel PIL siamo agli ultimi posti in Europa, ma ai primi quanto a evasione fiscale. E dunque, dove lo mettiamo quel trenta per cento di produttività che sfugge ai controlli dell’ISTAT e compagni?