Arte

Il primo tempo del Caravaggio, mistero non ancora chiarito

Prima che scattasse il lock down avevo già in programma una visita a Bergamo, Accademia Carrara, per la mostra di Simone Peterzano. Vi sarei andato alla ricerca di una verità, dato che quell’artista è l’unico maestro sicuro che le fonti assegnano al grande Caravaggio. Ma purtroppo ho saputo che i dipinti di questo pittore hanno già fatto ritorno alle loro sedi di appartenenza, mentre a dominare la piazza sono rimasti solo i pur magnifici “Musici” del Merisi, il cui prestito è stato generosamente prolungato dal Metropolitan. Ma è dipinto già ben noto a me e ad ogni altro amante dell’arte, e dunque da solo non vale la pena di un viaggio. Resta dunque a pesare uno dei più profondi enigmi della storia dell’arte: da dove viene quell’eccezionale periodo dei primi anni romani, ultimi anni del Cinquecento, inizi del Seicento? Caratterizzato, per intenderci, da tele quali il Bacchino malato, Il ragazzo morso dal ramarro, La buona ventura, La Maddalena penitente, fino alla punta estrema della Conversione di S. Paolo, dipinta per la cappella Cerasi in S. Maria del Popolo, opera poi ritirata dall’artista, o per ordine di chissà chi, e sostituita da una certo eccellente versione della Caduta da Cavallo, in cui però il Merisi è già entrato del tutto nell’esercizio del suo naturalismo pieno, con grandi sbattimenti di luce, procurati dall’avanzare di una drammatica oscurità. Questo è proprio il culmine dell’enigma, perché le due versioni, e le relative differenze? Dovessi scegliere, io non esiterei a preferire quella riemersa pochi anni fa, spuntata dalla collezione Odescalchi, a coronamento di un periodo fatto di luci intense, radiose, ferme, consistenti. Ho sempre sostenuto che in merito la tesi di Roberto Longhi, di un Caravaggio erede dei “lombardi”, il Savoldo, il Moretto, il Moroni, i Campi, non è soddisfacente, non si capisce perché, andato via lui, quella eredità non abbia dato luogo a grandi cose, e anzi il Seicento in Lombardia è stato tra i secoli più modesti dell’intera sua storia. D’altronde, ammettiamolo, la grandezza del Longhi può pure subire qualche critica, invece di trasformarsi nel culto osannante e supino dei tanti suoi devoti. Io stesso ne ho dovuto riconoscere poco fa l’eccellenza quando nell’”Officina ferrarese” ha ricostruito perfettamente il Polittico Griffoni, che ora trionfa in mostra a Bologna. Ma quanti passi falsi sul fronte del contemporaneo, con vistose incomprensioni ai danni di Canova, Mondrian, De Chirico, solo per accennare a qualche capo di una possibile requisitoria. Magari, rientrando sul fronte caravaggesco, gli si può dare per giusta la netta renitenza ad attribuirgli possibili influenze veneziane, di cui pure si vantava a sproposito il suo stesso maestro, il Peterzano. E allora? Dove cercare qualche precedente alla mirabile solidità di carni, alla composta serenità e gioia di vivere che si levano da quei dipinti giovanili? Forse ci vorrebbe un concorso a premi per chi riesca a trovare la via giusta per comprendere, per fare luce, su una fase che peraltro già tanta ce l’ha già in sé, e ottimamente rappresa, cagliata, densa, spalmata quasi come burro sui corpi e sulle cose.

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