I pochi che si spingono fino a leggere queste mie noterelle sanno che nei giorni scorsi ero all’Istituto italiano di cultura di Bruxelles per rendere un dovuto omaggio a Pier Vittorio Tondelli a 25 anni dalla sua morte, e anticipavo pure la scaletta degli argomenti da me affrontati per svolgere tale compito. Questa assenza per così dire giustificata mi ha impedito di essere, martedì scorso 8 marzo, ai funerali di Pirro Cuniberti, il che mi è dispiaciuto, anche perché mi pare di capire che si sono svolti in un clima di autentica commozione e partecipazione, quanto meno da parte del pubblico bolognese amante dell’arte. Purtroppo è stato il terzo novantenne di grande calibro che abbiamo perso in poco tempo, dopo Vasco Bendini e Sergio Vacchi. Ma questi due si erano allontanati da Bologna optando su Roma e su altre collocazioni, non so neppure bene dove e come se ne siano svolte le esequie, laddove Pirro è rimasto sempre tra le nostre mura, e inoltre la sua carriera è stata affidata per intero alla Galleria-principe della nostra città, la De’ Foscherari, e dunque in lui si è realizzata una identificazione fino in fondo con l’anima portante della “Felsina pictrix”, che ora ha l’obbligo morale di dedicare a ciascuno di questi defunti di alto bordo una completa rassegna monografica.
Cuniberti, malgrado questa evidente sua bolognesità, è stato però il più distante dal partecipare all’evento più importante del nostro primo dopoguerra, all’Ultimo naturalismo di Francesco Arcangeli, poi sviluppatosi in un pieno approdo all’Informale, questo anche se Momi non si è certo defilato dal compito di sostenerlo nei suoi primi passi, come del resto ha fatto per ogni altro nostro artista di valore. Ma in un certo senso Pirro fin dal primo momento era già mentalmente attrezzato per andare oltre, magari per inserirsi nel clima molto bene definito da Enrico Crispolti “Possibilità di relazione”, che partiva dalla constatazione di quanto gli autentici praticanti dell’Informale si dessero a compiere un viaggio nelle profondità della materia, o del proprio Inconscio, coltivando forme di solipsismo, da cui col finire degli anni ’50 si sentiva la necessità di uscir fuori appunto per dialogare più distesamente con altri aspetti del reale, risalendo a galla, cominciando a guardarsi intorno, anche se per il momento poteva apparire troppo presto cominciare ad accogliere il ritorno, anzi il proliferare degli oggetti, spinti avanti dalla seconda, o terza, rivoluzione industriale che già si delineava all’orizzonte. Era anche un cambio generazionale, infatti i più tipici rappresentanti di quella situazione, definitasi nel ’60, con l’apporto, oltre che di Crispolti, anche di Roberto Sanesi e di Emilio Tadini (e avrei dovuto esserci anch’io, ma mi astenne il dovere di preparare un pesante concorso per la scuola media), erano Adami, Aricò, Ceretti, Romagnoni, e in primo luogo Pozzati, il primo dei bolognesi a sottrarsi all’abbraccio, che rischiava di divenire mortale, dell’ Ultimo naturalismo arcangeliano, mentre vi rimanevano ancora avvolti sia Bendini che Vacchi, pertanto fu un non corretto allargamento di orizzonte quello compiuto dal curatore principale che volle inserirveli, per fedeltà all’impegno che in precedenza aveva messo nel sostenerne la causa, assieme al grande Momi. Il quale ben comprese come a quel modo si tentasse ormai chiaramente di sottrarsi al suo raggio d’azione, e affidò una sua sottile e ironica presa di distanza a due degli “sfottò” cui amava ricorrere sull’esempio del suo maestro, Roberto Longhi. Disse infatti che quella era una radunata di “Partigiani del Paci”, che in quel momento nei suoi panni di filosofo numero uno predicava il “relazionismo”, e meglio ancora, proprio su un piano stilistico, parlò pure di una “resurrezione dei Gorky”, in quanto gli Adami e Pozzati, per uscire fuori da una sorta di mononucleosi, distendevano nello spazio flessuosi tralci grafici, come lazos desiderosi di afferrare già qualche presenza oggettuale. Fu un lacuna di quella rassegna non porvi proprio Cuniberti, in luogo dei mal piazzati Bendini e Vacchi, ma questo era l’indizio di una certa sottovalutazione che nei primi tempi ha accompagnato le comparse di Pirro. Che invece aveva da subito manifestato una predilezione per i grafismi sciolti, svincolati da un eccesso di materismo, col disegno a farla da padrone trascinandosi a rimorchio la materia, il contrario di quanto entrava nell’esercizio dell’Informale a matrice ultimo-naturalista. Con sicuro intuito Cuniberti era andato a ispirarsi sul Klee visto alla Biennale di Venezia, e cioè su un artista del tutto estraneo all’albero genealogico dell’Informale, procedendo del resto a scioglierlo dalle rigidità “eidetiche”, cioè da un geometrismo troppo squadrato e statico tipico delle soluzioni del primo Novecento. Ovvero, Pirro fin dal primo incontro aveva scompigliato le partiture troppo sicure di Klee, le aveva tradotte in un discorso fluente, corsivo, come si potrebbe passare da una scrittura a caratteri cubitali a una diversa, più disponibile all’improvvisazione. In fondo, la natura di Pirro potrebbe essere detta, in sostanza, di un grande funambolo, che ha avanzato sempre con marcia periclitante, sempre a rischio di cadute, su un filo, che d’altra parte, come un insetto, emetteva da sé, pretendendo che nonostante la sua esilità ne potesse sostenere i movimenti. Oppure c’era in lui la magia di certi fachiri che riescono a far stare in piedi le loro corde senza appigli esterni. Ma nello sviluppare quei linearismi ci stavano anche momenti di ingrossamento, ovvero le gomene si coprivano anche di nodi corposi. Se si vuole avere un’idea sintetica su di lui, si vada a vedere-ascoltare un’intervista che compare su internet, dove egli si confessa, appoggiando le sue esternazioni alla visione di tracciati mobili che ne sostengono e verificano le parole, di sentirsi simile a un Adamo agli inizi della creazione, dicendosi anche “venditore di parallelepipedi”, che è quanto in lui è sempre rimasto dall’eredità derivante da Klee, e beninteso l’intera sua esperienza si consuma “nel paese dei segni”, e ci sta dentro anche una visita allo zoo, in quanto quei profili leggeri ed elastici possono davvero essere paragonati alle prodezze che Alexander Calder, anni prima, aveva affidato al fil di ferro. E in ogni caso quanto usciva dai suoi tracciati risultava sempre abbondantemente “visitato in sogno dai fantasmi”, il tutto all’insegna di un “orizzonte dei graffiti”, con pronuncia della parola fatidica che oggi gode di una estrema diffusione. Ovvero Cuniberti può essere considerato il padre nobile di tutte le forme di intervento parietale che oggi pullulano, ma che purtroppo il più delle volte non sono eseguite con la pulizia, il decoro, l‘eleganza cui egli non ha mai rinunciato.