Letteratura

Leavitt, un romanzo davvero “decoroso”

Dopo tanti anni torno ad occuparmi di David Leavitt in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo, “Il decoro”. Negli anni ’70 lui e taluni suoi colleghi furono protagonisti del Minimalismo statunitense, sia ben chiaro, in ambito narrativo, dato che la stessa etichetta si rivolge a ben diverse persone sul fronte artistico. Andò a loro l’attenzione mia e di altri reduci dall’impresa della neo-avanguardia, come un possibile ritorno di fiamma di uno sperimentalismo al momento quasi scomparso nel nostro Paese. E dunque, recensii le prime uscite di Leavitt, come quelle di suoi stretti sodali sul tipo di Bret Easton Ellis e Jay McInerney. Un luogo per esaminarli era dato da “Alfabeta”, nella sua prima esistenza, dalla cui redazione ero stato escluso col pretestuoso motivo che non ero residente né a Milano né a Roma, ma era un modo dei compagni di via, verso di me sempre diffidenti e ostili, per farmi fuori, o per rinfacciarmi una qualità di scrittore minore di provincia. Per fortuna ad occuparsi della critica letteraria in quella rivista c’erano gli schiettamente “milanesi” Francesco Leonetti e Antonio Porta, in pieno esercizio in quanto, era il giudizio anch’esso maligno degli altri redattori, si trovavano ad essere alquanto disoccupati, non certo viziati da un ingente successo editoriale. Era abbastanza chiaro a tutti che questo minimalismo, cioè l’affidarsi a brevi frasi e battute di dialogo, cioè in sostanza, a un trionfo della paratassi, negli USA avevano consistenti radici, gli si potevano trovare due padri illustri nelle persone di Scott Fitzgerald e di Hemingway. Dal primo veniva una leggerezza magari un po’ fatua e civettuola, dall’altro invece una scarna, martellante scansione che conduceva fino a Carver. Il nostro Leavitt sta senza dubbio nella prima casella di quel fronte, come dimostra in pieno questa sua prova recente, di cui, una volta tanto, è del tutto azzeccata la traduzione italiana del titolo, “Decoro”, che può riferirsi a un intervento di ristrutturazione di un appartamento, ma anche, in accezione più larga, a una modalità generale di comportarsi, con stile, educazione, rispetto delle buone regole. Forse il titolo originale,”Shelter in Place”, dà conto solo della prima accezione. Ma certo al centro di tutto c’è il problema di come e di chi debba “decorare”, rimettere a nuovo un fatiscente appartamento veneziano appartenente a una nobildonna decaduta. E’ l’obiettivo che si pone Eva Lindquist, facoltosa sposa di Bruce, come lui ambientata nei quartieri alti di Manhattan, ma stanca sia del ménage coniugale, sia di un’esistenza regolata da tempi toppo precisi, non più riscaldata da qualche fiamma. Tra i due non ci sono più rapporti sessuali, e del resto anche in passato non hanno generato dei figli, il loro amore, ben contingentato, affidato a ritmi prevedibili, si riversa su tre cani, da portare fuori per i loro bisogni, procedendo proprio con quell’educazione, con quel garbo così congeniti negli abitanti dei quartieri alti newyorkesi, e invece tanto ignorati dalle nostre parti. I tre cani di cui dispone la coppia sono tra i protagonisti principali di tutta la storia, anche perché servono ad agganciare qualche vicino di casa, da cui nasce un battibecco, mantenuto su toni felpati, ma senza evitare il rischio di degenerare. Infatti i nostri due, corretti “liberal”, sono contro Trump, di cui invece il rozzo vicino è un sostenitore accanito, e dunque le passeggiate coi rispettivi cani sono sempre sul punto di tramutarsi in zuffe. Ma il tono dell’intera vicenda vuole essere distensivo. Visto che siamo in pieno festival di revivalismi, si potrebbe dire che siamo in presenza di un neo-rococò, fatto di tranquille cene, dove magari si sperimentano i cibi alla moda, con inviti reciproci in cui interviene una pattuglia di comprimari ugualmente squisiti nelle loro mosse, dove prevalgono le donne, le varie Rachel, Min, e infine Sandra, con cui, come in un lento mettere le carte in tavola, si scoprirà che il nostro Bruce ha una relazione. Forse la moglie lo intuisce, e dunque l’acquisto dell’appartamento veneziano diviene una via di fuga, un’ancora di salvezza. La cosa riguarda anche l’architetto di interni, tale Jake, a cui è affidato il compito di curare il “decoro” di quello spazio strategico, caricato di valori che vanno al di là dei suoi muri scrostati e delle tappezzerie cadenti. Venezia viene subito dopo Manhattan, nell’intera trama, dato che proprio Jake vi ha conosciuto un amore gay dei più intensi della sua intera esistenza, con un Vincent, presto colpito da una forma disastrosa di Aids, tanto da meditare il suicidio, con un tuffo in un canale veneziano, dove però l’acqua era troppo bassa per potersi dare davvero la morte. Questa soluzione incerta e sospesa diviene il simbolo dell’intero romanzo, ogni cui motivo di trama è fatto di “pulcherrimae ambages”, rallentamenti, stasi, tempi morti. Il tutto sempre giocato con destrezza ed eleganza. Naturalmente se vogliamo ricostruire l’albo genealogico del nostro Leavitt, si parte da Scott Fitzgerald, si giunge a Truman Capote, e magari noi italiani ci possiamo infilare dentro anche l’Arbasino dei “Fratelli d’Italia”, ma in definitiva a Leavitt manca il coraggio di inserire un suicidio effettivo, quello tentato dal lontano compagno dell’arredatore Jake resta sospeso e virtuale, come tutto in questa leggera ma squisita prestazione.
David Leavitt, Il decoro, Società editrice milanese, pp. 349, euro 17.

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