Arte

Pezzi e le sue bende dal doppio uso

Devo al solito ad Artribune la notizia di una ricomparsa in scena di Paola Pezzi (1963). Credo di aver contribuito, parecchio tempo fa, al suo lancio, dopo la scoperta di un cacciatore di talenti come Franco Toselli. Ora, che ricompare con una personale in un luogo che non conosco, mi pare confermi in sostanza il suo linguaggio, che è fatto di due componenti. Per un verso c’è in lei quasi l’istinto di una infermiera, di una terapeuta che vuole coprire delle ferite con strati successivi di candide bende, quasi come facevano gli egizi nel tentativo di dare eternità alle mummie. Ma mentre quei reperti da un lontanissimo passato ci appaiono con il colore smorto, inqualificabile del trattamento subito, a ciò fa invece riscontro il candore degli avvolgimenti multipli cui ricorre la Pezzi, che potrebbero anche ricordarci il mito dell’uomo invisibile, intento proprio ad avvolgersi in vesti e altro per ritrovare una qualche consistenza. Naturalmente ci sta pure un riferimento a questi nostri anni torbidi, di terapia contro il covid, oppure di rimedi alle ferite che la tremenda guerra dell’Ucraina sta infliggendo a tanti essere. Ma che cosa c’è sotto quello spesso strato di bende? Se ci permettiamo di srotolarle, appare un volto del tutto contradditorio, una superficie da cui emergono spine, aculei, pungiglioni pronti a ferire, per cui appare naturale che l’artista debba prendere contro questo stato di fatto irto e appuntito delle debite misure di prevenzione. Sono insomma due stati contrapposti che si palleggiano, senza che l’uno pretenda di dominare sull’altro, e dunque costituiscono una efficace coppia dinamica, attraverso cui la nostra artista espleta il suo stile così bene caratterizzato.

Paola Pezzi, Milano, Gaggenau Design Element Hub, a cura di Sabino Maria Frassà.

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