Arte

Ricordo di Klaus Volbert

Qualche giorno fa i quotidiani davano una scarna notizia della scomparsa di Klaus Volbert, un tedesco che nella sua carriera è stato direttore di musei e coinvolto in altre imprese culturali. Io ho avuto almeno tre occasioni di lavorare con lui, due delle quali molto positive, una terza un po’ meno, ma non per colpa sua. Nel 1990 mi è riuscito di organizzare due mostre di arte italiana all’estero, con finanziamento del Ministero degli Esteri, cosa del tutto insolita, più unica che rara per me. Una di queste imprese era rivolta alla Spagna, e alle sue due città più importanti, Madrid e Barcellona, già allora fieramente avverse l’una all’altra. Si trattava della mostra intitolata “La otra escultura”, dove quell’”otra” andava inteso in due sensi, in accezione tecnica, in quanto in quella rassegna mi occupavo solo di realizzazioni che prescindevano dai classici marmo e bronzo usando invece i nuovi materiali tecnologici, dai metalli alle sostanze plastiche. Ma quell’”otra” aveva anche un altro senso, voleva essere un atto riparatorio nei confronti del predominio acquisito, all’estero, dalla celantiana Arte povera. Ora la scomparsa prematura di Germano ha dato la stura ha una serie di commenti quali non avrebbero avuto, se scomparsi in questi giorni, neppure un Roberto Longhi o un Giulio Carlo Argan. Sono uso di solito dire che Celant, all’estero, è il critico italiano più noto dopo il Vasari, ma è dubbio che abbia servito davvero alla causa della difesa dell’arte italiana, se si eccettuano i suoi magnifici undici della formazione poverista originaria, abili da subito a entrare nell’onda sessantottesche delle nuove proposte. Si dirà che negli ultimi anni molti artisti ancora in vita o i loro eredi si sono affidati a lui per la redazione di un catalogo completo della loro opera, naturalmente in inglese, questo nel caso, fra gli altri, di Melotti, Vedova, Mattiacci, ma mi sembra che il super lodato critico non abbia avuto la bacchetta magica di farli accettare dagli USA, che del resto sono stati alquanto moderati nell’accettare i Poveristi stessi. Tornando alla mostra spagnola, vi collocavo i “dimenticati” dal filtro opportunista di Celant, che magari si era profuso in riconoscimenti a favore di Piero Manzoni, ma molto meno per Carrino, Uncini, Cstellani, , per i cinetici milanesi, e se poi veniamo all’ondata post-sessantottesca, poco o nulla per Arienti, Cavenago, Nuovi Futuristi e così via. Fra gli altri, c’erano Ceroli e Pascali, ma perché li ho sempre strappati dall’inclusione poverista per riportarli nell’ambito che loro appartiene della Pop Art. La mostra spagnola, lo faccio per vantarmi, rovesciando lo stereotipo, fu un mio capolavoro di tattica di savoir faire, basti dire che, avendo diviso la fitta rassegna in due puntate, le feci esporre a incrocio nelle due città, ottenendo anche che il catalogo, edito da Fabbri, avesse il mio testo, ovviamente italiano, tradotto solo in castigliano, anche se a Barcellona bofonchiarono parecchio per la rinuncia al loro catalano. Sempre con l’aiuto del Ministero degli Esteri, l’intera mostra poi è migrata a Darmstadt., al Matildenhohe, diretto appunto da Volbert, considerato un “italianisant”, e il fatto stesso di aver accettato la mia proposta ne era buon segno, come pure l’intera accoglienza generosa e amichevole di cui mi gratificò in quei giorni. Ovviamente la mostra, volgendo in tedesco il titolo, diveniva “Die andere skulptur”, e per me fu una grande emozione vederla collocata nel meraviglioso edificio progettato da uno dei “Viennesi”, J.M. Olbrich, eroe dei miei precedenti studi sul clima complessivo del Liberty, o in questo caso dello Jugendstil. Devo dire che, essendoci di mezzo i nostri Esteri, l’inaugurazione avvenne alla presenza del nostro ambasciatore, allora a Bonn, e del burgmaister della cittadina dell’Assia, mettendomi in un tormentoso conflitto a chi dei due dovessi dare la precedenza nel concedere la parola. E dovetti tenere a freno l’amico Mainolfi, splendido partecipante, ammonendolo a non ripetere una sua barzelletta, quella della diversa destinazione delle lingue europee, per cui, se il francese è buono per l’amore, il tedesco serve solo per dare ordini ai cani.
Poi, agli inizi del nuovo secolo, godetti dell’appoggio dell’Ente bresciano manifestazioni artistiche che mi consentì di realizzare una mostra molto ambita, una rassegna per sostenere la tesi che l’Impressionismo non è solo francese ma è esistito in tutti i Paesi dell’Occidente, e dunque anche in Inghilterra, in Germania, in Russia e così via. Ma urtai contro l’ostracismo o l’incredulità dei direttori di musei proprio della Germania, e dunque mi rivolsi di nuovo a Volbert chiedendo il suo aiuto, e ottenendolo, per un certo numero di prestiti tali da sostenere la mia tesi, che beninteso in seguito si sarebbe rivolta anche al nostro Paese, accreditato anch’esso di aver avuto un Impressionismo dignitoso, anche se sparpagliato in diversi centri, come è nel DNA della nostra cultura, ma anche in quella tedesca.
Infine Volbert, terminati i suoi vari uffici direttoriali, è divenuto il principale consulente di Volker W. Feierabend, suo connazionale ma, almeno attorno al 2010, residente a Milano e divenuto un grosso collezionista di cose nostrane, credo in gran parte da lui date in comodato al MART di Rovereto. Non so se consigliato proprio da Volbert, questo personaggio mi ha commissionato un saggio di accompagnamento al catalogo dedicato alle sculture di Agenore Fabbri, cosa che ho fatto ben volentieri, dato che questo artista costituiva un buco nella trama dei miei interessi. Poi praticamente di questo mio lavoro non ho saputo più nulla, non ne ho ricevuto copia, credo che il committente mi abbia considerato un volgare esecutore su comando, liquidato da un magro compenso, dato che purtroppo in questa veste non mi so fare valere. Ma non posso fare colpa a Volbert di questa infelice riuscita, restano dunque i due precedenti titoli di merito che mi inducono a dedicargli questo commosso ricordo.

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