Letteratura

Abate: un dialogo vivace tra madre e figlio

Ricevo due libri dalla Einaudi, “Mi sono perso in un luogo comune”, di Giuseppe Culicchia, e “Mia madre e altre catastrofi” di Francesco Abate. Il primo mi è autore ben noto, anche perché appartenente alla fortunata ondata degli anni Novanta, credo di averne recensito quasi tutti i suoi frequenti prodotti, in genere con toni di consenso. Quest’ultimo è di carattere particolare, sicuramente non lo si può leggere di seguito ma solo per campioni, ritengo comunque che si tratti di un’operazione opportuna, forse la si dovrebbe condurre ogni tanto tempo, reiterando quanto a suo tempo aveva fatto il grande Flaubert con il suo “Dictionnaire des idées reçues”, anche se sarà ben difficile ritrovare l’alta tensione di quella sua opera, di autore sempre tormentato davanti al dubbio se contestare la banalità del mondo circostante o invece riconoscersi come corresponsabile in qualche misura, pronto quindi a identificarsi almeno parzialmente sia in Madame Bovary, sia nella coppia, affascinata proprio dai luoghi comuni, di Bouvard e Pécuchet.
Il romanzo di Abate conferma una tesi che sostengo ormai da tempo, e che riguarda in larga parte anche quanto uscito dall’officina di Culicchia e di tanti altri di quei narratori che venivano agli incontri di RicercaRE: il fatto di essere in presenza di un neo-neorealismo, o quasi a una ricomparsa dei Gettoni di Vittorini-Calvino, cioè a un enorme tentativo dei narratori di oggi di andare a prendere le misure del nostro vivere quotidiano, all’altezza del benessere ma anche dei nuovi disagi e penurie tipici della società in cui viviamo. In questo senso una funzione premonitoria e trascinante l’ha avuta, come ricordavo in queste pagine, Pier Vittorio Tondelli, ma anche col rischio che chi lo segue sulla sua strada vada a impaludarsi in un mare di ovvietà. Certo è che la narrativa italiana pare confermare un attaccamento quasi viscerale a una sorta di realismo sempre risorgente per li rami. Anni fa, in occasione di un convegno a Nofri, città natale di Domenico Rea, grande testa di serie di un atteggiamento di questo genere, osservavo che sarebbe interessante indire un referendum volto a verificare se presso i narratori di oggi abbia più seguito l’autore campano, o il suo coetaneo Italo Calvino, che anche lui, co-fondatore dei Gettoni, vi aveva marciato al passo di un neorealismo, magari al momento connotato da un solo neo, ma poi era passato a sperimentare la “citazione”, la riscrittura, con soluzioni tipicamente postmoderne. Ma il cavallo italico su quella strada non ha bevuto, e tanto meno si è lasciato incantare dalla sirena Umberto Eco, e neppure dai prodotti di una “Italian New Epic” alla maniera dei Wu Ming, mentre appunto abbondano queste panoramiche sul nostro oggi, o più ancora sull’”Adesso”, come titola Chiara Gamberale, in un suo romanzo di cui certo andrò ad occuparmi, ma dandole un voto molto basso, proprio perché vi si manifesta tutta l’inconsistenza, la vuotaggine dell’andare ad arrabattarsi sempre sulle medesime vicende: amori reiterati e infelici, rapporti coi genitori, difficoltà di farsi strada nella vita. Domenica scorsa ho valutato l’opera del Di Paolo, pronunciando un giudizio quanto meno tiepido sul suo recente romanzo. La colpa non sta nella materia, ma il fatto è che urge trovare modalità nuove e accattivanti nell’affrontarla.
Ebbene, la prova di Abate, autore di cui a dire il vero non so nulla, mi sembra che una chiave abbastanza vivace l’abbia trovata, stabilendo un dialogo continuo tra il protagonista, Checco, e una madre opportunamente querula, aggressiva, beffarda. Checco in definitiva appartiene alla categoria tanto diffusa, e tanto presente in tutto questo tipo di narrativa, dell’intellettuale frustrato, tra velleità, fallimenti, crisi sentimentali e di carriera, malattie. Dall’altra parte della barricata ci sta la madre, pronta a sollecitarlo, redarguirlo, punzecchiarlo. Valida la modalità con cui si svolge il dialogo tra i due, affidato a rapide battute, scorrenti con tutta la scioltezza della parlata quotidiana, che così si può anche concedere molte frasi dialettali, oltretutto di un dialetto tra i non più visitati, il sardo. Se la materia è frusta, la vivacità con cui madre e figlio si scambiano rimbrotti, ammonizioni, sfottò reciproci la rianima, le dà lustro. I soliti guai e malanni si lasciano certo intravedere in punteggiato, ma non dominano la scena, diventano appena gli spunti per provocare i due, come fossero sassolini, o addirittura macigni che valgono solo in quanto il loro scontro fa emergere le fiammelle del dibattito dialettico. Se si vuole, si parano sullo sfondo i soliti temi di una “educazione sentimentale” come tante, la madre redarguisce il rampollo per certi suoi usi e abusi erotico-sessuali, e anche per le scelte di tipo ideologico che non combaciano con quelle da lei coltivate, ma il battibecco rinfresca, dà nuova linfa a motivi che diversamente in se stessi rimarrebbero logori e consunti.
Giuseppe Culicchia, “Mi sono perso in un luogo comune. Dizionario della nostra stupidità”, Einaudi, pp. 231, euro 14,50.
Francesco Abate, “Mia madre e altre catastrofi”, Einudi stile libero, pp. 152, euro 16.

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