Grazia Verasani appartiene al cerchio magico dei narratori apparsi a RicercaRE, il che implica da parte mia un occhio di favore anche alle loro comparse venute dopo quegli anni d’oro della fine del ‘900, e infatti proprio su queste pagine semi-private ricordo di essere già intervenuto con giudizi favorevoli a suo vantaggio. Lo confermo anche per questa ultima prova, “Lettera a Dina”, anche se a prima vista è opera che rischia di confondersi nel coro, in una pletora di prodotti di autonarrazione in cui si sono infilati tanti autori di questi giorni. Forse la ragione che spinge a cercare ispirazione nelle vicende vissute direttamente, tra il pubblico e il privato, è dichiarata molto bene proprio dalla Nostra, quando a p. 131 le scappa la confessione che “… non è facile inventarsi una storia”. Lo sa lei, che in tante sue prove precedenti ha dovuto ideare una trama delle più cogenti attorno al felice personaggio di una detective, Giorgia Cantini, anche se a dire il vero le maglie del giallo lasciavano pure là intravedere largamente in filigrana il diario privato, e l’ambientazione in una Bologna ravvisabile perfino nelle strade e in tante altre circostanze. Ma in questo caso Grazia ha voluto uscire dal sentiero stretto e dalla servitù della trama, svolgendo la riflessione che “… solo nei romanzi gialli, alla fine, si scopre il nome dell’assassino… e invece, questa è la vita”. Ecco dunque la ragione per cui in tanti si danno a una specie di “vita in diretta”, accettando di navigare a vista, e nel pelago di una “Daseinanalise” che si prende il diritto di non concludere, di rimanere fino alla fine aperta ad ogni esito. Entro queste ampie e un po’ informi coordinate ho passato in rassegna tanti romanzi di questi ultimi tempi, attribuendo voti qualche volta positivi, più spesso negativi per errori di conduzione o per eccessiva liquidità e inconsistenza di contenuti. In quest’ultima casella ho collocato, per esempio, le prestazioni di Paolo Di Paolo e di Chiara Gamberale, emuli in qualche misura della narratrice che considero la più vacua e dispersiva fra tutti, la Elena Ferrante che continua nella furbesca tattica di non apparire in pubblico. Casi validi, pur sempre in questa collocazione di almeno apparente autobiografismo, quelli rappresentati da Edoardo Albinati e Luca Doninelli, compromessi però da una non confessata sfiducia proprio nell’autonarrazione, e dunque stimolati a inserire nella vicenda alcuni fatti grossi, ma simili ai proverbiali elefanti che fanno danni quando vengono introdotti in un negozio di cristallerie. E anche la Vinci si è spaccata in due, diffidando di una cronaca in diretta e cercando di andare a pescare in archivio vicende tremende, da far tremare le vene e i polsi.
La nostra Versani non commette errori del genere, crede cioè che tutto si possa risolvere nel migliore dei modi stabilendo un dialogo, seppur variato nei tempi e nelle modalità, con una amica del cuore incontrata fin dai banchi di scuola, e poi seguita a intermittenze, con un piacevole e utile saltellare delle date: improvvisi flash back verso un passato di innocenza o di primi stimoli erotici o di contatti iniziali con la droga, e poi fasi di silenzio, con una tomba che si para come spettro inevitabile, ma non finale, dato che con un ulteriore guizzo la storia riparte, emana ancora qualche fiammella, qualche scintilla di un calore, di un affetto che non viene mai meno, e che è sempre pronto a riaccendersi, e a coinvolgere anche il lettore, dato il carattere semplice, spontaneo, verosimile con cui la vicenda procede. Semmai, qualche nota di disturbo viene da inserimenti marginali di cui non si sente la necessità, come per esempio l’affidarsi della protagonista a sedute di psicoanalisi, mentre ci sembra tanto brava lei, con l’aiuto della narratrice alle sue spalle, nel condurre una sapiente analisi su se stessa, e sui mille fatterelli che l’hanno legata alla presenza di Diana. E anche il fatto che colei che narra in prima persona senta il bisogno di sbandierare gli amanti d’occasione appare quasi come un tentativo maldestro di procurarsi un attestato di normalità, in confronto con l’amica del cuore. Diana invece è continuamente sottoposta a tentazioni, minacce, cadute, ma risulta sempre capace di sollevarsi con una ritrovata grazia e innocenza. Forse è anche un po’ retorica la contrapposizione tra la sanità della famiglia di colei che narra, appartenente a un solido proletariato bolognese di sinistra, e invece la famiglia di buona qualificazione sociale cui è legata Dina, ma con una madre indifferente, preoccupata solo di tutelare il diritto di “vivre sa vie”, anche sul piano erotico, e un padre debole, di scarsa presenza. Ma malgrado certi ostacoli e passi falsi, la vicenda prosegue, sempre autentica, col piede giusto, anche per l’opportuna decisione di affidarsi appunto a “flash” rapidi, senza la pretesa di fare grande, di accumulare centinaia di pagine, come avviene nei romanzi di Albinati e Doninelli, fino a comprometterli. Qui l’esilità del racconto diviene una garanzia di buon esito.
Grazia Verasani, Lettera a Dina, Giunti, pp.158, euro 14.