Arte

I validi ospiti di Nanda Vigo

L’Artefiera di Bologna, nei suoi pochi giorni di durata, in genere da un giovedì al lunedì successivo di fine gennaio, provoca in città un clima folle, da festa di carnevale, o peggio ancora, da tumultuoso capodanno, accresciuto dallo sciamare di eventi minuti e di breve durata in tutto il resto della città. Purtroppo, proprio come nel caso di quei due appuntamenti sopra evocati, al clima orgiastico ma effimero subentra una lunga quaresima o letargo. Al momento, dato anche che siamo in attesa delle elezioni comunali della prossima primavera, mi sembra che il carniere appunto delle istituzioni di Comune, nonché di Area metropolitana e Regione, siano vuoti, cosicché ormai per sperare di avere mostre di ampi portata ci si deve rivolgere alle Fondazioni bancarie, nel rispetto delle loro rispettive dimensioni, massima per Carisbo col relativo Genus Bononiae, più esigua ma efficace per quella del Monte.
Ma in tanto festival del precario e transeunte conviene segnalare una istituzione che invece si prospetta di lunga durata, la Collezione Lercaro sita in una ampia sede di Via Riva Reno, ora gestita dal Padre Dall’Asta, dalla Casa madre dei Gesuiti al S. Fedele di Milano. Intanto, nei giorni esagitati di cui sopra, al primo piano vi si potevano vedere le installazioni di Nanda Vigo a base di tubi al neon e di altri “Light Projects”, in cui l’artista milanese riafferma la sua adesione a una linea maestra come quella rappresentata, in un tale ambito, da Lucio Fontana prima, e Dan Flavin dopo, ma in definitiva scartando dall’uno e dall’altro, dalle torsioni e curvature con cui il grande Lucio movimentava le sue bacchette magiche, o invece dall’eccesso di rigore minimalista sfoggiato da Flavin. Nanda, cioè, capisce che ora il minimalismo sta alle nostre spalle, e che semmai il clima postmoderno richiede che quelle luci assumano un andamento decorativo, con moti sinuosi, quasi da arabeschi spaziali.
Ma soprattutto, al pianterreno, Nanda distribuisce i pezzi di una sua precisa collezione personale, di quelle che chiama, “Affinità elette”, in cui al primo posto c’è ovviamente Piero Manzoni, il grande sperimentatore con cui la Nostra ha avuto una stretta unione, e negli anni buoni di maggiore inventiva di Piero, quando la famiglia, che ora cerca di ricavare ogni possibile profitto dal “caro estinto”, allora si vergognava di lui e non lo ammetteva neanche in casa, mentre Nanda era tra i pochi a prestargli fiducia. E dunque le restano, di quegli anni intensi, delle opere memorabili, che vanno oltre i soliti e monotoni e inflazionati, e forse falsati in gran numero, “Achromes”, che non corrisposero affatto alla punta più avanzata dell’artista. In fondo, era giustifcata l’accusa di Yves Klein di avergli sottratto l’idea del monocromo, il che generò anche la diffidenza di Restany, pur nel suo fiuto per ogni talento avanzato. Qui, piuttosto, si deve ammirare una tavoletta del ’56 coperta di sottili graffiti, di una scrittura misteriosa e arcana, che forse ci permette di sdoganare il primo periodo manzoniano, quando faceva i conti col Surrealismo, per poi voltargli le spalle, e buttarsi, per esempio, verso coraggiosi impacchettamenti, aprendo la strada al qui del resto pure lui presente Christo, o inaugurando il capitolo del ricorso alle materie plastiche come le fibre di vetro, di cui sapeva offrirci un ampio sbuffo simil-organico. Ma accanto a questa presenza maggiore, tanti altri sono gli ospiti con cui la Nostra ha scoperto di aver “eletto” qualche affinità, come per esempio l’intero Gruppo Zero, Uecker, Mack, Piene, il cui rigore tuttavia ha loro tarpato le ali verso una creatività ad angolo giro di cui invece era capace proprio Manzoni, consentendogli di anticipare la rivoluzione del ’68, mentre quel gruppo tedesco rimaneva prigioniero dei rigori di un universo meccanico-industriale appena ritrovato, senza sospettare che presto lo si sarebbe dovuto abbandonare di nuovo. Ma le affinità dichiarate sono tante altre, ne viene un museo del piccolo formato dove si possono ammirare, come gioielli luminosi, i migliori interpreti di tutte le operazioni più avanzate anni ’60, con ottica ampia che ammette i vari protagonisti a una ricca mensa comune, sia che si siano slanciati sulle rotte della “morte dell’arte” (Beuys, Rotella, Patella, Colombo) o invece abbiano tentato, malgrado tutto, qualche recupero della pittura (Turcato, Accardi, Schifano, Tadini), o sperimentato lo smisurato continente del verbo-visivo (Agnetti, Isgrò, Carrega).
Ma la visita non deve finire qui, infatti, se ci si porta in un ampio seminterrato, ci sono gli ospiti permanenti della Collezione Lercaro, e qui si avranno varie sorprese, come quella di trovare un vasto nucleo di cartoline di Giacomo Balla, dove il capofila del Futurismo “prova” le sue varie ipotesi di soluzioni astratto-decorative. E ci sono sculture di Martini, Manzù, Messina, Wildt, Tavernari, cioè dello stato maggiore della nostra migliore tradizione plastica, e tante altre operare da ammirare, comprese certe presenze del tutto dimenticate, come quella di Emilio Ambron, che frequentava Balla negli anni tra le due guerre, e ne mutuava l’aspetto di un iperrealismo di ritorno.

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