Arte

Il troppo dolce Dolci

Purtroppo Carlo Dolci (1616-1687) segna il punto di maggiore crisi del pur generoso progetto messo in atto da Mina Gregori quasi trent’anni fa, quando concepì la mostra sul Seicento fiorentino. L’illustre studiosa cercava di imitare l’esempio dei colleghi, nella fedeltà alla causa longhiana, Francesco Arcangeli e Carlo Volpe, che già da un trentennio avevano rilanciato alla grande la scuola dei Carracci con mostre famose e di alta tenuta scientifica. Ma i bolognesi erano stati legittimati dalla famosa prolusione che Roberto Longhi tenne nel ’34 al momento di assumere l’insegnamento bolognese all’Alma mater, in cui non aveva mancato di indirizzare appunto un omaggio seppure un po’ di striscio alla scuola carraccesca, a modo suo, cioè trovando anche in essa qualche riflesso del naturalismo padano, che era, come si sa, la stella fissa della sua navigazione. Non mi risulta che abbia rivolto un analogo apprezzamento ai disgraziati toscani del Seicento, quando poi passò sulla cattedra fiorentina. Del resto, prima di loro, c’erano stati secoli di gloria, nella città del Giglio, e poteva sembrare del tutto marginale occuparsi anche di quella sfortunata appendice. Infatti le sorti delle due città, pur separate appena dalla catena appenninica, sono state per secoli di totale diversità. Immense le glorie a Sud della catena montana, quasi irrilevanti quelle a Nord, degne solo di qualche omaggio per il Trecento bolognese, ma che fu solo una piccola guglia, se comparata all’immensità giottesca, di cui peraltro era anch’esso ben memore. Poi, poco nel Quattrocento, se si eccettua qualche riflesso dalla scuola ferrarese, e un buon manierismo, ma imparagonabile alle grandiose vette fiorentine, in questo ambito, che furono anche il canto del cigno della grandeur toscana. Forse Bologna trasse vantaggio proprio dalla scarsità delle sue tradizioni, rendendo liberi Carracci e compagni di guardarsi attorno, di attingere a piene mani al colorismo e naturalismo dei Veneziani e dell’isolato Correggio, creando un impasto capace di insinuarsi come una spina nel fianco del caravaggismo. Ma soprattutto, giovò a Bologna la sua stessa situazione di vassallaggio rispetto alla Roma dei Papi, il che diede ai suoi artisti una specie di accesso diretto all’Urbe, dove portarono il loro naturalismo moderato, ma non privo di movimenti pre-barocchi, e pronto anche a nobilitarsi, per merito del grande Annibale, alle fonti di un rilanciato classicismo, il che creò una miscela a largo raggio d’azione, pronta a diffondersi in tutte le nazioni, Francia, Spagna, Austria, rimaste attaccate alla Chiesa di Roma, miscela capace di scavalcare il caravaggismo, che fu un fuoco destinato a spegnersi verso la metà del secolo. Longhi fu un assai cauto o addirittura reticente promotore della causa carraccesca, che infatti ebbe un maggiore impulso grazie a Cesare Gnudi, di derivazione ragghiantesca, ma pronto a superare lo sciagurato giudizio del suo maestro, che aveva accusato i Bolognesi di eclettismo per la loro pretesa di attingere a tanti forni, mentre Gnudi fu il difensore di quella astuta e proficua “entente cordiale”, trovando appunto in ciò l’appoggio di longhiani più convinti del loro maestro circa la bontà di quella causa.
Ma tornando a Firenze, l’orgogliosa autonomia del casato mediceo, così come fu tra i maggiori fattori dei secoli di gloria, divenne simile al proverbiale cadavere da cui certe vittime designate non riescono a distaccarsi e che dunque le trascina con sé verso la putrefazione. In altre parole, i Fiorentini furono impediti di guardarsi attorno con occhi prensili, dovettero rispettare proprio l’obbligo di fare da sé, senza viaggi romani, per esempio, e anche senza potersi collegare prontamente quando da Roma e da Napoli, città quelle sì più che mai fiorenti e rigogliose, provennero gli alti apporti di Pietro da Cortona e poi di Luca Giordano. La città del Giglio dovette accontentarsi degli esiti compassati e conformisti del Cigoli o dell’Allori, magari potendo schierare solo il genio ribelle, tumultuoso e disordinato, di Francesco Furini, capace davvero di andare extra-moenia e di consuonare, per esempio, con un personaggio anche quello sfuggente e dinamico come Salvator Rosa. Invece il nostro Dolci fu condannato da una quasi perfetta applicazione del triste detto “nomen omen”, lui subito ribattezzato come Carlino o Carletto, perché di bassa statura, e rimasto quasi per intero chiuso nella cerchia delle mura fiorentine, con poche sortite, mai una puntata su Roma, a esalare il suo miele, a produrre immagini davvero sdolcinate, tanto per rimanere alla triste profezia del cognome. Se gli si volesse trovare un socio di alto profilo, si potrebbe pensare al quasi coetaneo spagnolo Esteban Murillo, che però accanto ai “santini” melliflui seppe frequentare con ardimento il filone della pittura di genere, con squadre di quasi scugnizzi alla napoletana intenti ai gesti prosaici dello spulciarsi. Nulla di simile nel repertorio ultra-conservatore del Dolci, negato al dramma, perfino quando osa affrontare temi forti, come nel dipinto posto nella copertina del catalogo, che sarebbe di una Salomé recante su vassoio la testa del Battista. Ma si tratta di una servetta, più che altro preoccupata di apparire in ordine con i ricciolini della pettinatura, che reca in tavola una pietanza saporita chiedendo agli astanti se vogliono favorire. E così via, dappertutto in Madonne e Bambino, Santi eccetera, domina il senso della misura, del piccolo ma bello, di armonie raggiunte al ribasso. Niente da fare se guardiamo in direzione del Reni, che certo anche lui sapeva inoltrarsi nelle mollezze, ma con un fare arioso e con sinuosi ritmi di danza, oltretutto eseguiti in grandi formati.
Fissati questi limiti alla presenza del Dolci, ovviamente c’è da rallegrarsi che anche lui abbia avuto una mostra molto ben condotta e di giusta ampiezza. Inoltre a suo vantaggio va anche considerata la produzione ritrattistica, in cui invece seppe mettere la “cattiveria” che gli mancava quando si dava alle immagini sacre, troppo rotonde e levigate. Nel ritratto invece sapeva anche affrontare rime “aspre e chiocce”. E una menzione d’onore va anche resa ai disegni, in cui l’obbligo di affidarsi al segno asciutto della matita gli consentiva di abbandonare gli eccessivi spessori di belletto che ottundono i dipinti, inoltre la policromia si riduce a uno squisito contrasto di neri e rossi, ovvero in questi casi il Dolci sa affrontare quella dieta salutare cui invece rinuncia, a suo danno, quando si dà all’atto totale della pittura.
Carlo Dolci, a cura di S. Bellesi e A. Bisceglia, Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, fino al 15 novembre, cat,. Sillabe.

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