Arte

Kapoor, dal tutto vuoto al tutto pieno

Al solito devo a Artribune la segnalazione di un ghiotto evento che si tiene alla Commanderie de Peyrassol, in Provenza, località dal nome molto invitante in cui però temo che non mi riuscirà mai di mettere piede. Vi si annuncia una mostra di Anish Kapoor, l’artista anglo-indiano più anziano di me di appena un anno (1934) che fa parte di quel gruppo di scultori inglesi con cui si rinnova la grande tradizione aperta da Henry Moore e via via da tanti altri. Forse il numero uno di questo talentuoso drappello è il polistilista Tony Cragg, ma anche Kapoor possiede varie mosse nella sua strategia. Lo conoscevano soprattutto per degli scavi vertiginosi, o per delle cavità insondabili cui ci invitava. Ho recensito sull’”Unità”, qualche anno fa, la sua impresa più temeraria, che era un tunnel completamente immerso nell’oscurità per decine di metri, aperto in uno stabile del Comune di Milano nell’area della Fabbrica del Vapore. Tanto spiazzante, quella cavità, che il visitatore all’ingresso era invitato a sottoscrivere una liberatoria, nel caso che fosse preso da ansia, da crisi di nervi, nell’inoltrarsi in quel perfetto ventre di balena. Io stesso l’ho percorso con grande disagio, non vedendo l’ora che davanti a me baluginasse la luce dell’uscita. Ebbene, nella mostra in Provenza Kapoor ha rovesciato la sua strategia. Se si vuole c’è sempre qualche cavita, nel suo repertorio, ma ora non è il vuoto a dominare, bensì la carne molliccia di labbra enormi tra cui si schiude una specie di bocca beante, pronta a trangugiare. Non so se l’artista è stato ispirato dalla più stupefacente creazione in tema, l’”Origine du monde” di Gustave Courbet, quella vulva incorniciata da peli che si spalanca davanti ai nostri occhi, provocatoria, volutamente ripugnante, a sfida di ogni perbenismo. Non mi pare che nelle esibizioni buccali o comunque carnali di Kapoor ci siano analoghe intenzioni provocatorie, ma certo c’è un bel salto rispetto alle sue procedure anteriori, tutte nel segno della rarefazione, del vuoto spinto, cui invece ora subentra un pieno clamoroso. A dire il vero non mi si dice, nella notizia sulla mostra, di quale materiale l’artista si valga, ma non sono certo i mezzi al limite dell’invisibile che gli erano cari in precedenza, qui fa un tuffo voluto, compiaciuto nella materialità più crassa, quasi in un ritorno di fiamma di specie informale.

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