Arte

Mainolfi e le due proprietà della scultura

I miei Nuovi-nuovi non se la passano mica male. La settimana scorsa ho reso omaggio a Aldo Spoldi, attorno a cui si è stretta per celebrarlo la sua città natale, Crema, mentre una mostra modenese ne illustra appieno caratteri e qualità. Ora è la volta della De’ Foscherari di Bologna, che nonostante la perdita del fondatore, Franco Bartoli, e dell’abile gestore, Pasquale Ribuffo, grazie ai loro figli rispettivi, Bernardo e Francesco, mantiene il suo primato di migliore galleria privata nella città felsinea, con un programma eclettico che rilancia artisti già visitati in passato. Tra questi Luigi Mainolfi che si presenta con una mostra in cui rifulgono al meglio i suoi pregi, che poi sono i due fondamentali della scultura. Visto che siamo nell’anno celebrativo di Donatello, diciamo che a Luigi si conviene la nozione di “stiacciato”, anche se a lui, meridionale, non si attaglia certo il vocabolo toscano lanciato da Donatello. Ma in sostanza Mainolfi è un ottimo confezionatore di superfici, come è evidente in questo caso, Non per nulla l’esposizione è intitolata Etna, e infatti vi domina come uno strato di lava già raffreddata, e quindi caratterizzata da un colore nero, fosco, profondo, squarciato però da tizzoni ardenti, non ancora spenti, che trapuntano coi loro tocchi brillanti quella coltre funebre. Mainolfi è autore di tante di queste estensioni, una donna di casa le direbbe spianate col mattarello, che però riescono malgrado tutto a respirare come attraverso pori, o come le bollicine che si levano da un  liquido in ebollizione Notiamo anche di passaggio che il nero profondo e un colore, non rosso, ma caldo, ocraceo, proprio della creta e di ogni altra sostanza pronta alla modellazione, racchiudono le opzioni cromatiche dell’artista. Accanto a questi brani di lava etnea la mostra espone anche il loro opposto, vale a dire delle bocce sferiche di perfetta, compiaciuta, ostentata rotondità. Che del resto sono una specie di presupposto, di materiale di base su cui il Nostro applicherà tante fuoriuscite ed emanazioni, oltre ovviamente alla eventuale traforazione quasi per dare uno sfogo a tanta ostentata perfezione. Quelle pance si mostreranno gravide di tante estroflessioni, potranno emettere zampe, per non dire gambe o braccia, in quanto non sempre Mainolfi approda a immagini antropomorfe, anzi, la spinta genetica più spesso dà  luogo a mostri, a esseri sospesi tra il mitologico e il teratologico. Ne abbiamo subito una dimostrazione nell’opera detta Apessa, una sorta di mostro acquatico, tra la piovra e il delfino, in cui viene abbandonato il fulvo colore della sana vita biologica per affondare nell’altra tonalità amata dall’artista, un nero lucido, corvino, immacolato, con generosa emissione di membra, tubercoli, tentacoli, per meglio sfruttare le possibilità della plastica, in un’abile congiunzione delle due doti fondamentali della scultura,  la malleabilità, il fare masse gonfie, voluminose, e la duttilità dei lacerti, delle propaggini leggere ed elastiche.

Luigi Mainolfi, Etna,  Bologna, Galleria de’ Foscherari, a cura di Enrico Camprini.

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