Arte

Un buon uso del “magico”

Il MART di Rovereto, nella conduzione di Gianfranco Maraniello, sta seguendo un doppio binario, da una parte mostre in linea con la vocazione rivolta soprattutto al secondo Novecento e oltre, nel cui nome infatti ora sono in atto mostre di Francesco Lo Savio e di Carlo Alfano, figure opposte tra loro, ma nel comune segno di una certa difficoltà per palati generici, come osservava Gregorio Botta in una recensione sulla “Repubblica” di domenica scorsa, il primo troppo coriaceo e monostilistico, anche per la sua breve esistenza, l’altro, di lunga navigazione, costretto inevjtabilmente a soluzioni ibride. Ma su un diverso binario ci accolgono ampie selezione storiche, che si valgono dell’abile politica di opere ottenute in comodato svolta dalla prima direttrice e fondatrice del MART, Gabriella Belli, che infatti conduce questo “Realismo Magico”, una rassegna che se non sbaglio applica per la prima volta all’ambito del visivo un termine nato soprattutto in campo letterario, come ha ricordato un recente numero monografico dell’”Illuminista”, la rivista diretta da Walter Pedullà, cui non ho mancato di collaborare nel nome del mio carattere ambidestro. Trasportrarto sul terreno del visivo, questo termine agisce utilmente per sintetizzare una ridda di etichette, tra cui in primo luogo quelle di Metafisica e di Nuova Oggettività, come indica un sottotitolo dato alla mostra. Accanto alla giusta curatela della Belli, interviene pure quella di Valerio Terraroli, che si trova il terreno ben coltivato da tanti interventi precedenti. Tra cui appunto anche i miei, a cominciare dal numero uno della Metafisica, Giorgio De Chirico, cui mi posso vantare di aver applicato una formula di lungo periodo, come di colui che non si è mai stancato di predicare il ritorno alle origini, a rivisitare il museo del passato, maestro quindi di “citazionismo”, dal momento “magico” del secondo decennio fino alla morte, che lo ha colto mentre, magari inconsapevolmente, raccoglieva attorno a sé le schiere del postmoderno. Accanto a lui, un numero due, Carlo Carrà, capostipite dei Futuristi convinti all’improvviso di dover invertire la rotta, e di non puntare più sul futuro, bensì sul passato. Qui Carrà è mostrato soprattutto in un capolavoro dei primi anni Venti, “Le figlie di Loth”, in cui l’artista riscopre un goticismo raffinato, esile, rampante. Ma forse il titolo di numero uno dei “ritornanti” spetta a Gino Severini, che nel tempo ha battuto, in questo processo revivalista, perfino il grande Picasso. In merito ricordo di aver avuto la frotuna di curarne , al Pitti di Firenze, la mostra commemorativa dai cento anni dalla nascita E tanto per giocare alle etichette, compaiono subito i due protagonisti dell’impresa collaterale dei “Valori plastici”, i due Broglio, Mario e Edita, bravi scolari nel dipingere con rigore adamantino, degno di un’alta oreficeria. Ma ci sta pure uno straordinario Felice Casorati, che negli anni Venti sente pure lui il richiamo dei valori plastici, e dunque dà volume alle sue deliziose sagome in precedenza schiacciate sotto il premere di sontuose vesti decorative. Per compiere questo passo, gli è servita da modello la forma dell’uovo, come dimostra lo straordinario dipinto posto nella copertina del catalogo, un gruppetto di giovani filtrati da uno specchio appunto ovoidale, bombato, che li strizza, ma con delicatezza, “per non fargli male”, si potrebbe dire col Pascoli.
Sempre nel nome di un’economia di cui l’etichetta del magico è capace, ecco subito la squadra del “Novecento” di Margherita Sarfatti, con le varie soluzioni di Achille Funi, Ubaldo Oppi, Gian Emilio Malerba, Piero Marussig. Manca il capofila Sironi, ma perché omaggiato in precedenza da una apparizione monografica nella stessa sede, e non so bene perché, sono esclusi pure Bucci e Dudreville. Poi il panorama si spiana nella nostra Nuova Oggettività, che infatti sempre negli anni Venti contrastò il passo a quella, in apparenza più autorizzata, dei Tedeschi, trovando stanza soprattutto a Roma, con uno straordinario Antonio Donghi, ben assistito da Carlo Socrate, da un Virgilio Guidi a lunga percorrenza, capace di muoversi da quella posizione di “magico” stallo per andare poi a diffondersi nello spazio. Anche in questo caso, perché dimenticarsi di Riccardo Francalancia, e magari pure di Francesco Trombadori? La polivalenza dell’etichetta assunta vale molto bene per dare un tetto alla presenza assolutamente dominante di Cagnaccio di San Pietro, forse il numero uno di una “Nuova oggettività” in salsa italiana, nei cui confronti devo rivendicare i meriti di una mostra da me e altri fatta a Bologna nel 1980, nel quadro di un’operazione generale promossa dalla Regione Emilia Romagna a favore di De Chirico. Noi, lasciando a Ferrara il compito di celebrare il Maestro (ma la città estense non riuscì a raccoglierne le tele, e. la cosa è nota, se la cavò rcorrendo a delle riproduzioni più o meno fedeli), avevamo capito bene come quello spirito metafisico, o diciamo pure magico, si era diffuso in tutto il decennio, quindi puntammo decisamente su quel periodo svolgendo proprio il tema “La Metafisica: gli Anni Venti”. Ricordo con quanto piacere discesi nei sotterranei della GNAM, della Galleria Nazionale d’arte moderna, per scoprirvi appunto i capolavori nascosti di Cagnaccio e compagni, di cui fin lì ci eravamo vergognati, considerandoli attardati nel culto di vecchi valori mimetici, superati, esclusi dai vari astrattismi del dopoguerra. Da quel momento invece essi sono stati riammessi nella corrente, divenendo un acquisto fisso della storiografia. Infine, l’etichetta “magicamente” stratigrafica comprende in sé anche la sezione cosiddetta degli Italiani di Parigi, capeggiata ovviamente da Gino Severini, in cui entra dignitosamente anche Mario Tozzi, qui ricordato, mentre è assente Campigli, e sarebbe ormai giusto includervi in permanenza anche René Paresce, ora ricordato, assieme ai compagni parigini, in una mostra a Bologna, in S. Maria della Vita. Notevole e in parte anche giustificata l’attenzione rivolta all’ambiente triestino, in cui spicca la presenza di Carlo Sbisà, e anche qui mi vanto di una retrospettiva che mi è stato possibile dedicargli nel 1995, nella sede appropriata del Museo Revoltella. Opportuno che si ricordi pure il segaligno, metallico Arturo Nathan, lascerei invece il giudizio sospeso per Cesare Sofianopulos, mentre forse si è ecceduto nel dare accoglienza ad altri triestini meno scattanti e aguzzi. Infine, non saprei concedere un’assoluzione ad alcune figure cui a lungo sono stato abituato a opporre il mio ostracismo per una pittura troppo corriva, troppo leccata e conforme, quali Gregorio Sciltian e Leonor Fini.
Realismo magico, a cura di Gabriella Belli e di Valerio Terraroli. Rovereto, MART, fino al 2 aprile. Catalogo Electa.

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