Arte

Picasso, metamorfosi incessante

Anche il grande Picasso non sfugge all’attuale moda di riproporre instancabilmente i maestri del primo Novecento in mostre che però ne mettono a nudo i limiti, quali in genere si sono manifestati nella loro produzione dopo la soglia del 1930, per cui si vedono i vari Mirò e Chagall ripetersi in forme via via più stereotipate, prigioniere di stili all’inizio davvero creativi, ma poi ripetuti stancamente. Il genio spagnolo ora ci viene servito in due mostre, nelle due nostre capitali, quella politica, Roma, e l’altra economica, Milano, ma nel suo caso siamo fuori dalla stanca ripetizione di formule fin troppe note, in quanto Picasso si è mosso, nella sua lunga esistenza (1881-1973), nel segno di una metamorfosi continua, come in effetti si intitola l’esposizione milanese, che però forse è meno degna rispetto alla concorrente romana di innalzare questa etichetta. Infatti nelle sale di Palazzo Reale, da me scrupolosamente percorse, ci sono solo le metamorfosi cui Picasso si è dato dopo il 1930, in cui non è che si sia ripetuto stancamente, al pari dei suoi coetanei, anzi, al contrario si è dato a un polistilismo compiaciuto e ardito, imbrogliando le carte del suo gioco complesso, ricavando degli ibridi senza dubbio ingegnosi, ma non di rado spinti fino quasi a rasentare le rive del kitsch, o di una mostruosità gratuita. Del resto, di questi ircocervi, eccitanti ma anche urtanti, la mostra milanese ne presenta forse troppo pochi esemplari, cercando di riempire la scarsità dei pezzi usciti proprio dal pennello dell’artista con una infinita serie di opere, operine, frammenti da capolavori del passato, particolarmente dalla classicità greco-romana, di cui senza dubbio Picasso si è nutrito, ma lungo la sua intera carriera, e non si può dire quindi che queste apparizioni arcaiche abbiano nutrito solo i suoi ultimi anni. Si dà però il risultato sorprendente che la rassegna milanese, per un visitatore, sembra valere di più per quanto sciorina, di reperti archeologici o dai musei del passato, rispetto allo spettacolo del giochi di prestigio dell’artista, in fase di compiaciuto divertimento nel picchiare su ogni possibile tasto del suo gremito repertorio.
La mostra romana, alla Galleria Borghese, confesso che l’ho visitata solo virtualmente, avvalendomi del catalogo ricevuto per via di rete, ma forse in questo caso un contatto avvenuto esclusivamente via etere può considerarsi addirittura giovevole. Anna Coliva, la abile direttrice di quella sede, ha l’abitudine di aggiungervi al ben di Dio che già vi si trova una serie di capolavori di qualche grande artista del presente o del passato, ma con un doppio problema, che io ho altra volta puntualmente rimarcato, nei tempi felici quando recensivo le mostre su quotidiani. La Galleria Borghese è già di per se stessa piena come un uovo, e dunque è un po’ artificioso volervi infilare per forza qualche capolavoro in più, mettendo a rischio la percezione dei visitatori comuni, che magari non colgono bene la differenza tra i conviventi abituali, in quelle splendide ma limitate sale, e gli ospiti forzati del momento, Inoltre, in un luogo che già soffre per conto proprio di una affluenza eccessiva, non c’è alcun bisogno di accrescerla ricorrendo a convitati straordinari e temporanei. Ma ciò detto, la rassegna ora dedicata a Picasso come scultore è eccezionale per ricchezza e completezza, e meriterebbe davvero di essere posta all’insegna della metamorfosi incessante cui Picasso si è dato in ciascuna delle tappe del suo lungo, e davvero trasmutante procedimento stilistico, riuscendo oltretutto a fornirne ogni volta dei precisi equivalenti plastici. E dunque, ecco, a frugare negli interstizi tra i capolavori stanziali, apparire gli esiti forniti dal maestro spagnolo in parallelio alla fase cubista, e poi del richiamo all’ordine, e poi ancora della ripresa di ardimenti da lui raggiunti al chiudersi degli anni Venti. Ma mentre in seguito la sua musa pittorica, come detto sopra, si è limitata a calcare i sentieri di una divertita ibridazione, forse il dover dare corpo, materia, consistenza plastica a quegli stessi ardimenti li ha preservati da un eccesso di compiaciuta mostruosità. Diciamo insomma che l’impegno a investire la terza dimensione ha dato forza, impeto, originalità alla produzione in scultura, anche oltre la soglia del 1930, che per tanti altri maestri del secolo, e per lui stesso in pittura è risultata alquanto limitativa. Penso a “Donna seduta” e alle sue varianti, che sono, da parte del genio multiforme del Nostro, un modo per investire l’ambiente. Lo stesso si dica per “Bagnante a braccia alzate”, o per “Capra”, e siamo già al 1950, quando appunto su tela l’artista si esibisce in giochi meno efficaci, più estrosi ma meno creativi. E si continua con “donna incinta”, con “La lettrice”, opere in cui l’autore, oltre che a inquietare lo spazio, rasenta anche l’informe, compete insomma con tutti gli esiti più avanzati della ricerca quale si stava svolgendo nel secondo dopoguerra, mossa anche dalla volontà di prendere congedo dai vari esercizi stilistici un po’ troppo formali della prima metà del secolo. Picasso invece non si arrende, vuole restare competitivo, combattere fianco a fianco dei più giovani rivali sul medesimo fronte, fino a esiti davvero sorprendenti, come per esempio quello di spezzare la totalità delle forme, di offrirle sbocconcellate, a pezzi. Si vedano per esempio “Mano sinistra”, “Mano con manica”. Non mi risulta che ce ne siano degli equivalenti su superficie, in quella enorme produzione alquanto facile e conforme cui, in qualità di pittore o di grafico, Picasso negli ulti tempi si stava spendendo, e anche dissipando.
Picasso, Metamorfosi, a cura di P. Picard. Milano, Palazzo Reale, fino al 17 febbraio. Cat. Skira.
Picasso scultore, a cura di A. Coliva e di D. Widmaier. Roma, Galleria Borghese, fino al 3 febbraio. Cat. Officina Grafica.

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