Si è realizzato un intelligente scambio tra il Louvre e la Pinacoteca nazionale di Bologna. Il primo ha imprestato, fino al 7 gennaio, un’opera favolosa di Guido Reni, “Nesso e Dejanira”, realizzata circa alla metà del percorso del “Divino Guido” (1575-1642), verso il 1620, per Ferdinando Gonzaga. Questo capolavoro ha preso il posto di un’altra tela del Reni, se possibile ancor più prestigiosa, “La strage degli innocenti”, che per qualche tempo si potrà ammirare a Chantilly, dove è andata a raggiungere una gemma preziosa dell’ancor più divino Raffaello, “Le tre Grazie”. La Pinacoteca di Bologna può vantare una sorta di mostra monografica reniana permanente, nel piano-terra di un salone al cui ammezzato se ne stanno altri testi celebri della Scuola bolognese. Uguale ventura, mi sembra, non arride allo sfidante ufficiale del nostro artista, al Caravaggio, quasi coetaneo, di cui tra poco si potrà ammirare l’ennesimo omaggio resogli dal Palazzo Reale di Milano. E sarà proprio un big match, spina dorsale dell’enorme Seicento, e del dominio esercitato su quel secolo decisivo per le sorti del “moderno” proprio dalla nostra arte. Si sa bene che il secolo scorso aveva decretato la palma del primato al genio lombardo, infliggendo invece ai Bolognesi una specie di degradazione, accusandoli di mali esiziali, se appunto valutati con criteri “moderni” (attenzione, i pochi che mi leggono sanno bene che nel mio gergo questa etichetta è ben diversa dal “contemporaneo”, o meglio ancora dal “postmoderno”). Artefice numero uno dell’innalzamento delle fortune caravaggesche contro quelle di Reni e compagni, Roberto Longhi, secondo una delle impostazioni a mio avviso errate del pur grande storico dell’arte, vittima di una sorta di retroazione. Nel suo orientamento, volto per intero a premiare il “moderno”, la vetta di questa tendenza starebbe nel realismo-naturalismo da Courbet agli Impressionisti, di cui il Merisi sarebbe l’insuperabile maestro, mentre i Bolognesi, proprio se valutati con questo metro, rivelerebbero tutti i loro limiti. Si aggiunga da parte di Longhi, e proprio in merito al Caravaggio, una seconda linea a mio avviso insostenibile, che ne farebbe l’erede di un realismo “lombardo”, in piena rivolta contro la classicità raffaellesca-tizianesca. Io ho sempre pensato che di questo nocciolo lombardo invano si cercherebbero le tracce nel primo Merisi, soprattutto andando a indagare sul periodo estremamente enigmatico di quando giunge a Roma e dà luogo a un eccellente, perfetto realismo magico” anzitempo, di cui non ci sono tracce nei suoi presunti progenitori sul tipo del Savoldo e compagni, vittime semmai di un certo arcaismo, di chi non ha inteso la “maniera moderna” predicata dal Vasari. Ma su questo enigma storiografico, magari, ritornerò in occasione della prossima mostra milanese.
Veniamo ora al capolavoro del Reni, giunto a Bologna in trasferta. Uno degli argomenti per abbassare questo artista è stato nella sua assoluta incapacità di dar corso a toni di gravità, dramma, tragedia. Vediamola, questa scena, in cui il feroce Nesso si comporta, in realtà, come un antesignano di Nurejev, cioè di un ballerino certamente alquanto fatuo, compiaciuto della sua agilità che gli permette di sollevare senza difficoltà una Dejanira del tutto consenziente, forse appena un po’ sorpresa per l’improvviso innalzamento, che però le dà un senso di piacevole ebbrezza. Chi, in questa scena di danza leggiadra, di balletto favoloso, è del tutto fuori posto, risulta essere il povero Ercole simile a uno gnomo impotente, a un “cornuto” che assiste al tutto da lontano, ridotto a un ruolo insignificante. Naturalmente, caratteri affini, di spegnimento del dramma, si colgono ancor più nell’ancor più celebre ed eccellente “Strage degli innocenti”, in cui Guido insegue una strategia opposta a quella del rivale storico. Gli scherani sono quasi nascosti, mentre emergono i volti delle madri, certo non con espressioni di gaudio, come nella scena precedente, ma non di particolare afflizione, o meglio, si potrebbe dire che le madri abbiano già elaborato il lutto, quasi con rassegnazione, e così elevano verso il cielo dei volti pallidi, irrorati da una diafana luce lunare, che è una grande specialità del nostro autore. Ci si guardi attorno, nella magnifica sala che la Pinacoteca bolognese gli dedica, e quali che siano i soggetti, un S. Sebastiano, un Sansone vittorioso, perfino un Cristo incoronato di spine, e anche le figure muliebri, a cominciare da uno spettrale ritratto della madre, ovunque si vedrà l’imporsi di una mano leggera, portata allo sfumato, ai mezzi toni, quasi stesi con un inchiostro simpatico con tempi di durata contingentati, quasi che quelle morbide figure fossero destinate a sparire col tempo, o a lasciare delle nude nicchie, delle pallide ombre. Ovviamente, questi dati stilistici costituiscono il massimo contrasto con le tinte cupe, notturne, radicate in un colore pastoso, melmoso, cui via via il Caravaggio si è dato, con giubilo di chi esige dall’arte note tragiche, di dramma incombente. Tranne, beninteso, quel misterioso periodo giovanile di vigilia che, come detto, è ancora tutto da indagare. Proprio per questo suo svuotare i corpi da ogni consistenza carnale Guido sarà maestro nella tecnica dell’affresco, invece negata al suo rivale, e ad ogni altro seguace della medesima scuola. Sempre una visita alla Pinacoteca bolognese conferma tra l’altro il ruolo centrale del Reni, perfetto erede di Annibale, di cui riprende tutte le migliori virtù, trasmettendole poi al Domenichino, che a sua volta è perfetto nel mettere in corsa il genio francese, Nicolas Poussin. Mentre a Ludovico spetta il compito di farsi timido anticipatore del Caravaggio, trascinandosi dietro Il Guercino, sospeso a metà, tra la pittura fangosa ereditata proprio da Ludovico, e invece gli alleggerimenti di Guido. Del resto, verso la metà del secolo i giochi sono fatti, il caravaggismo perde colpi nell’intero panorama dell’Europa di fede cattolica, mentre sono proprio i parametri di Guido a imporsi, come riconosce perfino un fino a quel momento perfetto erede del caravaggismo quale lo Spagnoletta, Jusepe Ribera. Per attendere il rilancio di quella tradizione bisogna aspettare l’arrivo del Longhi, e l’innalzamento a parametro fisso, a unità di misura, del realismo francese dell’Ottocento, punto terminale del “moderno”, poi travolto dal “contemporaneo”, o meglio dal “postmoderno”, che si riconosce di più nei caratteri del “divino Guido”.