Arte

Il martirio di S. Orsola, lascito estremo del Carvaggio

Ottima idea di Banca Intesa di essersi costituita una seconda sede in un Palazzo napoletano appartenente alla sua dotazione. Mi pare che sia al momento l’unico caso nostrano di multi-sede, cui invece ormai ricorrono d’abitudine i grandi musei internazionali, dal Guggenheim al Louvre. Fra l’altro, al momento si insiste su un capolavoro del Caravaggio, “Il martirio di Santa Orsola”, forse l’ultimo dipinto da lui eseguito, prima di affrontare quel viaggio di ravvicinamento a Roma, che si concluse tragicamente a Porto Ercole. Questa tela è tipica dell’ultima maniera del Merisi, invasa dalle tenebre, quelle tenebre che solo dalla metà del primo decennio del secolo erano entrate nel suo stile, di pari passo con le scoperte scientifiche che facevano apparire il nostro pianeta come una sferula smarrita nell’oscurità degli spazi cosmici. Le sventure degli ultimi anni avevano rafforzato nel Caravaggio questa invasione delle tenebre, assieme alla scelta di temi sempre più tragici. In questo dipinto domina il volto grifagno, invaso da un ghigno sadico, dell’esecrato Attila, che del resto, nel repertorio caravaggesco, fa il paio coi volti ugualmente contratti in qualche smorfia dei giocatori di carte, dei bari, o di altri soggetti di pessima reputazione. E Attila, in questa genia, era un rappresentante dei più autorevoli. Poco dopo il grande poeta epico Corneille gli avrebbe dedicati pure lui un dramma colmo di condanna e di esecrazione. Le tenebre dominanti sanno trarre mirabili bagliori dall’armatura dello scherano sulla destra, mentre forse questa mala genia che la incastra fa quasi subire un passo indietro alla vittima designata, Orsola, anche perché in questa fase tutta dedita all’oscurità l’artista appare riluttante a far brillare il colore acceso e involontariamente illuminante del sangue, La parola, insomma, più che al corpo della martire, è data alla squadra di gaglioffi da cui è circondata, quasi che l’artista stesso si sentisse assediato, accerchiato, e cercasse disperatamente una via di fuga. C’era in lui le netta sensazione di non avere più tempo, gli si potrebbe imprestare il finale dell’opera pucciniana, “L’ora è fuggita e muoio disperato”. Drammatico indizio di questo “non avere più tempo” è pure il fatto che per asciugare la tela e lasciarla in uno stato accettabile l’artista la sottoponesse a un riscaldamento forzato, quasi dotandosi di un phon anzi tempo.,

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